Tommaso Pincio “Studio per un ritratto di Jules Verne colto dallo sconforto nel sottomarino Nautilus dopo aver scoperto che una mongolfiera lo ha preceduto nel suo viaggio verso la Luna” (2012) varia materia su carta cm. 51 x 45,5
[da Una visita a Jules Verne di Edmondo de Amicis, testo apparso per la prima volta in “Nuova Antologia” n. 150, novembre 1896]
Andammo a trovare Giulio Verne ad Amiens dove sta tutto l’anno, a due ore e mezzo di strada ferrata da Parigi.
Una lettera da lui scritta al mio buon amico Caponi mi accertava che la sua accoglienza sarebbe stata più che cortese, e questa certezza faceva più vivo il mio desiderio antico, e quello dei due cari giovanotti che erano con me, di conoscere di persona l’autore ammirato e amato dei Viaggi Straordinari; il quale, fuori dei suoi libri, ci era del tutto sconosciuto, poiché non avevamo mai visto neppure un ritratto in fotografia. Parlavamo appunto durante il viaggio, del caso singolare, che uno scrittore francese vivente e così celebre si sapesse così poco, quando del carattere e della vita di quasi tutti gli altri si avevano notizie continue e minute e anche indiscrete, come dei re e degli imperatori; e la nostra curiosità era non poco accresciuta da questo mistero.
Picchiammo alla porta di una palazzina, posta all’imboccatura di una strada solitaria, in un quartiere signorile, che pareva disabitato. Ci aprì una donna, che ci fece attraversare un piccolo giardino ed entrare in un’ampia sala a piano terreno, piena di luce; e subito comparve Jules Verne, con il viso sorridente e con le mani tese.
Se, incontrandolo senza conoscerlo, mi avessero chiesto di indovinare la sua condizione, avrei detto: un generale in riposo, o un professore di fisica e matematica, o un capo di divisione di Ministero: non un artista. Non dimostrava gli ottant’anni che aveva, aveva un po’ la travatura di membra di Giuseppe Verdi, un viso grave e buono, nessuna vivacità artistica nello sguardo e nella parola, maniere semplicissime, l’impronta di una grande sincerità in ogni manifestazione, fosse pure la più sfuggevole del sentimento, del pensiero, del linguaggio o degli atteggiamenti, e il suo modo di vestire era quello di un uomo per cui non conta assolutamente nulla l’apparire.
Il mio primo senso, dopo il piacere di vederlo, fu di stupore. Fuorché nella bontà dell’aspetto e nell’affabilità delle maniere non riconoscevo nulla di comune tra il Verne che mi stava davanti e quello che era prima nella mia immaginazione. E mi tornarono in mente le parole che mi aveva detto, tra il faceto e il serio, un mio amico di Torino: Lei va a vedere Jules Verne? Ma se Jules Verne non esiste! Non sa che i Viaggi Straordinari sono di una società di scrittori che hanno preso uno pseudonimo collettivo? Crebbe il mio stupore quando, condotto a parlare delle sue opere, ne parlò con un fare quasi distratto, come avrebbe fatto delle opere di un altro o, meglio, come di cose in cui non entrasse alcun merito suo, di una collezione di stampe e monete, che egli avesse acquistato, e delle quali s’occupasse più per bisogno di fare qualche cosa che per passione dell’arte. Tentò più volte, in principio, di stornare il discorso da se stesso per volgerlo cortesemente sopra un’altra persona, e, non riuscendogli, lo fece cadere con garbo amorevole sui suoi due giovani visitatori; ma fu pure forzato, in fine, da una domanda diretta a dire del suo modo di concepire e di scrivere, e lo fece in poche parole, con una grande semplicità e una chiarezza ammirabile.
All’opposto di quel che io credevo, egli non si mette a fare ricerche intorno ad uno o a più paesi dopo aver immaginato i personaggi e i fatti del romanzo che vi deve svolgere: fa invece, da prima, molte letture storiche e geografiche relative ai paesi stessi come se di questi non avesse a fare altro che una descrizione ampia e minuta: i personaggi, i fatti principali e gli episodi del romanzo gli sorgono in mente durante la lettura, ispirati dalla lettura medesima, nella quale egli non procede con la curiosità circoscritta e con la fretta impaziente di un cercatore di notizie utili ad altro fine, ma con l’amore e col diletto di un appassionato di quegli studi. Quanto alle cognizioni svariate, che gli occorrono, e che nei suoi romanzi sono profuse, di fisica, di astronomia, di storia naturale, da molto tempo non ha più bisogno di cercarle nelle opere di scienza, che furono, fino dalla sua prima gioventù, la sua lettura prediletta, poiché o le ha nella memoria o le ritrova in una raccolta enorme di appunti che egli ha sempre preso e va prendendo continuamente da libri, riviste e giornali, non trascurando niente di attinente a viaggi, a scoperte, a fenomeni, ad avvenimenti e a personaggi singolari, che creda gli possano essere utili in qualsiasi modo per i suoi lavori futuri. E riguardo alla scelta dei paesi, che devono essere il campo dei suoi romanzi, guidato da un concetto che ero assai lontano dall’immaginare. Si è proposto di descrivere coi Viaggi Straordinari tutta la Terra: procede quindi di regione in regione, secondo un certo ordine prestabilito, non ritornando che per necessità, e il più brevemente possibile, nei paesi che ha già percorsi. Molte regioni gli avanzano e ha fatto il conto dei romanzi che deve scrivere ancora per colorare intero il suo disegno. Ne avrò il tempo? disse sorridendo. Lo spera, come lo speriamo tutti, e intanto non perde una giornata. Scrive, di regola, due romanzi l’anno, dandone soltanto uno alla stampa perché le pubblicazioni non si affollino; di modo che ne ha sempre parecchi nel cassetto, che aspettano. Va a dormire quasi ogni sera alle otto; la mattina alle quattro è già sveglio e lavora fino a mezzogiorno. Così fece sempre, fuor che quando viaggiava; così continuerà a fare finché potrà.
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