Come una carezza che indugia sul viso della persona amata, così i protagonisti di questo romanzo vengono vezzeggiati e posati delicatamente tra le pagine dal loro autore, Valentino Ronchi che, con molto garbo, ci accompagna nella lettura di Quasi niente, il suo secondo romanzo edito da Fve Edizioni, che segue Riviera del 2021, per Fazi. Come lui stesso ha sottolineato, è questa un’opera di fantasia per dare un tributo ai pensieri del filosofo e musicologo francese Vladimir Jankélévitch che in vita fece suoi nuclei tematici centrali nell’esistenza di ciascuno quali il tempo, l’amore, la morte.
La trama racconta che nel 1933, mentre si trovava a Parigi, Jankélévitch ricevette l’incarico come professore al Lycée du Parc di Lione e lì si trasferì, intrecciando poi lunghi momenti di dialogo con il suo allievo Philippe Reablin e a seguire con Alina Vlaovitz. Precisi e suggestivi dettagli di abbigliamento personalizzano l’unicità dei tre personaggi: la descrizione di una giacca, di un manicotto o di un un paio di scarpe fanno solo intuire espressioni del volto o loro movenze fisiche, volutamente lasciate in controluce – sebbene il personaggio femminile di Alina sia caratterizzato anche da esplicita sensualità.
Loro camminano di continuo attraverso le strade di Lione e quasi sempre all’alba: “Riconosceva in quell’inizio di giornata un momento propizio per il pensiero, e per la vita. Come se fosse più fluida, più sincera, a quell’ora. (..) Per guardarsi in giro, per farsi tirar dentro nella vita dalla Vita”. A indicarci che l’avanzare della camminata per raggiungere un punto della città, parimenti indichi anche il progredire in sensibilità e in coscienza interiore: quasi a sottolineare lo struggente e costante desiderio di voler perseverare ogni giorno verso una diversa meta in se stessi.
Così i tre, per le vie della città e per il Parc de la Tête d’Or, a lungo, per poi sedersi, solitari e composti nei propri pensieri, in un bar per un caffè o su una panchina nel parco – salvo incontrarsi tra loro, inaspettatamente. E poi scrutarsi, e poi scambiare piccoli dialoghi. Con i loro passi fluiscono i loro pensieri, senza impedimenti, in un andamento costante che dona ritmo e cadenza precisa allo scorrere delle giornate. Per desiderio dell’autore, da questo passeggiare di Vladimir e Philippe emergono riflessioni profonde, si svelano intuizioni filosofiche e, grazie a una prosa delicata, i due uomini si permeano di gentilezza e di un animo soave, così sereno che la quotidianità tutta non può che divenire bellezza, struttura morbida e vitale.
Condividendole poi, le loro esternazioni si dilatano, si estendono e prolungano, alla stregua di onde create da piccoli sassi gettati in uno specchio d’acqua, onde che arrivano a lambire il paesaggio circostante per avvolgerlo con un manto prezioso: la città con i suoi palazzi, le sue strade, il fiume Saona. I luoghi ora, così ammantati, si vestono di nuovi significati e nuove sembianze, e chiamano a gran voce il profondo desiderio di non rappresentare più solo un semplice panorama, uno sfondo nel racconto, ma esigono vita propria, vogliono essere – riuscendoci appieno – i coprotagonisti dell’intero romanzo.
Ecco perché il lettore può addirittura osservare una realizzazione pittorica: intravvede le prospettive, i contrasti, i chiaroscuri, mentre avverte al contempo l’intensa pulsione della vita che straborda dalle pagine, sebbene, incredibilmente, lo svolgimento della trama resti sempre quieto e piacevolmente ovattato, con l’unico movimento percepito che è solo quello dei passi sull’asfalto che desiderano andare oltre, spingersi sempre più in là.
Intraprendenti ed estremamente curiosi di tutto ciò che l’occhio umano può sfiorare o intuire, i passi di Vladimir e Philippe anelano a respirare l’essenza della vita. Vogliono esserci, vogliono fare la loro parte, vogliono vivere: “La vita è ovunque: è nei giorni, nei libri, nelle decisioni. È un po’ dire io ci sono, io sono qui. Eccomi”
Per Valentino Ronchi un’opera la sua che è un tributo ai pensieri del filosofo Jankélévitch, ma altresì, uno scritto che è un tributo alla gioia per la Vita che vuol vivere caparbiamente nell’esistenza di ognuno di noi, donandoci la sua presenza e la possibilità di nostra intima crescita: “La vita viene incontro, ti porta le cose, ti raggiunge. Ti chiama, ti chiama a giocare, a dir la tua, a pescare le carte.”
Chiara Gilardi
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Vladimir quelle mattine d’inizio gennaio adattò a Lione la consuetudine di camminare prima del lavoro, prima di cominciare la lezione. Una vecchia abitudine, che aveva origine ai tempi in cui era studente, al Montaigne a Parigi, proseguita poi negli anni dell’università, e perpetuata in quelli di insegnamento, a Praga e Caen. E ne aveva visto di mondo, di mercati che si facevano, in quel modo, di donne che venivano via presto da qualche casa dove forse non avrebbero dovuto essere. Aveva incrociato i camminatori del mattino, uomini intabarrati, frettolosi, uomini di religione che uscivano a pregare, gente comune diretta in qualche posto, nottetempo. Riconosceva in quell’inizio di giornata un momento propizio per il pensiero, e per la Vita. Come se fosse più fluida, più sincera, a quell’ora.
E aveva modo anche d’addomesticare un po’ quella specie d’ansia che talvolta lo invadeva. Un’ansia buona, di capire e di vivere, che metteva sotto esame ogni giorno, ogni evento, in una forma di studio e di devozione per le cose continuo e infaticabile, che costava parecchio. Croce e delizia, ci conviveva da sempre.
Il gennaio lionese era entrato in una fase particolarmente rigida. Di notte si andava sottozero e la mattina era come imbambolata dal freddo. Fra le poche cose vive, in movimento, il professore raggiungeva il Rodano, lo attraversava alla passerelle, faceva un pezzo di Presqu’île e si fermava al Coupole. Lì leggeva e scriveva, per circa un’ora, nel silenzio, seduto a un tavolino sul fondo. Certe volte, invece, cambiava itinerario: raggiungeva il Tête d’Or e vi entrava, magari come primo visitatore della giornata. Lì la vegetazione, incolta in certi tratti, oltre i viali ben curati, permetteva una forma di contatto con la natura. Gli alberi lo sovrastavano, era convinto che gli dessero le giuste proporzioni delle cose. E li amava come fossero spogliati dall’inverno, esposti ai venti.
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Valentino Ronchi, Quasi niente, Fve Editori, pp 144.