Agenzia Alcatraz dà alle stampe Malpertuis, romanzo di Jean Ray nella traduzione di Luca Fassina.
Satisfiction per l’occasione propone, grazie all’editore, la prefazione scritta da Valerio Evangelisti.
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Il signore dell’incubo
Mette a disagio introdurre un autore che dichiarò di avere orrore di prefazioni e preamboli, in nome delle «storie in cui si entra come un coltello nella carne». Consola il fatto che di Raymond Jean Marie De Kremer (Gand, 1887-1964), meglio noto come Jean Ray, non c’è mai da fidarsi. Di prefazioni ne scrisse a decine, ai suoi stessi racconti. Sulla sua biografia inventò di tutto, peggio del “capitano” Emilio Salgari. Sarebbe stato prima mozzo e poi marinaio, contrabbandiere di whisky e rhum nell’America proibizionista. Avrebbe navigato per il mondo intero, vivendo secondo lui avventure così terrificanti da non essere riferibili, per non spaventare i lettori. Qualche biografo ingenuo ci ha creduto.
Balle. Il futuro Jean Ray trovò lavoro, nell’incantevole città di Gand, come impiegato comunale. Vi restò fino a un processo per appropriazione indebita, o peculato, e a una condanna a quasi tre anni di prigione. Li scontò tutti. Ma, pessimo funzionario e navigatore di fantasia, De Kremer aveva pubblicato nel 1925 una raccolta di racconti, Les Contes du Whisky. Ebbero un buon successo. Uscito dal carcere e inibito dagli impieghi pubblici, non aveva che una via da percorrere: quella della scrittura.
Dopo qualche tentativo senza eco di romanzi per la gioventù, arrivò improvvisa la fortuna. Si era in una fase calante del romanzo popolare. Tramontato il genere feuilleton e appassito il suo derivato diretto (i volumi mensili con il capolavoro di Marcel Allain e Pierre Souvestre, Fantômas, lo Zigomar di Léon Sazie, il Belphégor o il Judex di Arthur Bernède, per citare solo i più noti), si stava affermando la dime novel, di origine statunitense. Fascicoletti di poche pagine, a basso prezzo (negli Stati Uniti un decimo di dollaro: un dime, appunto), contenenti una storia completa.
Questo tipo di pubblicazioni ebbe particolare successo in Germania. Accanto a traduzioni dei fascicoli americani (con eroi quali Nick Carter, Nat Pinkerton, Buffalo Bill), ne furono prodotti altri, originali, con protagonisti europei. Spesso si attingeva alla narrativa popolare; ed ecco imprese settimanali di Sherlock Holmes, il ladro gentiluomo Raffles (poi ribattezzato Lord Lister) e altri ancora.
Qualcuno si ricordava di Les contes du whisky, e nel 1933 propose a Jean Ray di tradurre in francese lo Sherlock Holmes autoctono. A corto di denari, Ray accettò. Nel frattempo, però, l’Holmes falsificato aveva cambiato nome. Conan Doyle aveva protestato contro la proliferazione abusiva del suo investigatore, e i suoi eredi dimostrarono uguale accanimento, questa volta attraverso i tribunali. Holmes diventò “il re dei detectives, lo Sherlock Holmes americano”, e successivamente Harry Dickson (in Italia Petrosino, celebre commissario ucciso dalla mafia).
Dopo la Prima Guerra Mondiale, il governo francese aveva stabilito l’esproprio delle società tedesche con filiali in Francia. Accadde anche alla casa editrice Eichler, che distribuiva gli Harry Dickson. La testata fu acquistata all’asta da un editore olandese con distribuzione europea. Fu questi ad arruolare Jean Ray per le traduzioni.
Dopo qualche tentativo, Ray si ribellò. Le trame erano fiacche e mal scritte, le avventure inconsistenti e fanciullesche. Chiese all’editore di poter riscrivere i racconti da cima a fondo. L’olandese accettò, a una condizione. Aveva comperato anche i cliché delle copertine. Le nuove storie di Jean Ray dovevano riflettere le illustrazioni dei fascicoli originari, a prescindere dal testo.
Nacque così un Harry Dickson inedito, molto diverso dallo pseudo Sherlock Holmes e da quello di Conan Doyle, pur agendo a Londra (era americano di nascita, ma trasferito in Inghilterra all’età di cinque anni). Ray ne fece il protagonista, a partire dal 1933 fino agli anni Quaranta, di ben centocinque episodi. Ancora oggi leggerli è un piacere. Avvincenti, serrati, scritti in una lingua francese pura ed elegante, leggermente barocca (Ray si dilettava a introdurvi parole desuete, come avrebbe fatto molto più tardi Rex Stout col suo Nero Wolfe), Harry Dickson affronta enigmi ai limiti del paranormale, e mostri veri o presunti d’ogni tipo. Vampiri, licantropi, fantasmi, gorgoni. In contesti descritti al dettaglio, si trattasse di quartieri londinesi o di località di campagna. Nessun imitatore di Conan Doyle (e oggi si contano a centinaia) era mai stato, o sarebbe stato, altrettanto accurato.
Se ho tanto insistito su Harry Dickson, è perché fu la matrice di molte opere ulteriori di Jean Ray. I racconti che riguardavano il detective “americano” contenevano, in nuce, opere ragguardevoli, e talora memorabili. Dopo una sosta (il Belgio era occupato dai nazisti, si era in piena Seconda Guerra Mondiale) quattro di esse esplosero in libreria nel 1942-43. Le Grand Nocturne, Les Cercles de l’Épouvante, La Cité de l’Indicible Peur (nata come avventura di Harry Dickson) e un capolavoro della letteratura fantastica, Malpertuis.
Non mi azzarderò ad anticipare, a chi sta per leggere il romanzo, elementi decisivi della trama. Il suo svolgimento, e la sua genialità, sono contenute in una citazione da Voltaire che apre il volume. La storia figura narrata da almeno cinque testimoni, e ruota attorno alla vetusta dimora chiamata Malpertuis. Ma cos’è Malpertuis, veramente? Cosa vi ha portato, prima di morire, il suo proprietario Quentin Moretus Cassave, navigatore di ritorno dalle isole greche? A cosa sono dovuti gli strani comportamenti degli eredi che ha convocato al suo letto di morte, e obbligati a risiedere nella villa per avere il patrimonio del morente?
Si passa di bizzarria in bizzarria, di maleficio in maleficio, in quell’abitazione immensa e scura, frequentata da monaci sinistri, come l’abate Doucedame dei Pères Blancs. Il problema che ci si pone, via via che si penetra nell’enorme abitazione e negli immediati dintorni, è se Malpertuis si trovi effettivamente nel mondo che conosciamo, nell’epoca a noi nota. La risposta è: «In parte», e aiuta a pervenirvi il resto della copiosa opera narrativa di Jean Ray.
Tema ricorrente è lo spaesamento, il contatto con una realtà incerta, fluida, che non si sa se appartenga all’universo concreto o sia prodotto onirico. Case che si dilatano, scale che appaiono dove non c’erano, porte che si aprono dove nessuno le aveva notate. È come appoggiarsi a un muro che si credeva solido, e sentirlo cedere per farvi cadere al di là. Al di là dove? In un universo coesistente col nostro, ma irraggiungibile se non attraverso rari passaggi. La magione inquietante di Malpertuis è forse uno di questi. E, una volta entrati, non se ne esce. Non nella nostra dimensione.
La chiave della paura che sa suscitare Jean Ray non è legata ai mostri, pur numerosi (nel nostro caso un lupo mannaro, secondario nella storia). Risiede invece nello smarrimento di chi è atterrato dall’altra parte (proprio quella del romanzo omonimo di Alfred Kubin) e, circondato dai suoi incubi, non sa come uscirne. Il massimo degli orrori, se vogliamo, pur in assenza di scene particolarmente sanguinose e di atrocità.
Difficile trasporre Ray con efficacia, fuori della pagina scritta. Il film belga Malpertuis del 1971, per la regia di Harry Kümel, non ebbe successo, malgrado fosse finalista al festival di Cannes e avesse un cast favoloso (con Orson Welles nei panni di Cassave). Troppo lento, forse, e mutilato delle allusioni ai due universi sovrapposti. Anche le traduzioni del romanzo non attirarono le attenzioni dei lettori. La prima in italiano fu addirittura sforbiciata, l’altra fu tradotta alla meno peggio per una collana da edicola.
Raymond Jean Marie De Kremer, dopo una costante oscurità, ebbe una breve notorietà negli ultimi anni di vita. Altri autori parlarono di lui, e ne fecero addirittura l’eroe di proprie storie romanzesche. La TV portò il viso impiegatizio di Ray sul piccolo schermo, a narrare biografie menzognere. Solo oggi il nume centrale della trimurti francofona del genere fantastico (gli altri numi sono il belga Thomas Owen e il francese Claude Seignolle) brilla quanto doveva, e vede riconosciuta la sua raffinata intelligenza.
Valerio Evangelisti