Vasile Ernu, classe 1971. Dalle foto appare simpatico, riservato, eccentrico ma con garbo, un garbo russo, oserei dire sovietico. Infatti sì, è proprio così, lui è proprio sovietico. Poi sì, è anche vero che nel 1991 torna in Romania, terra natìa dei suoi genitori; che lì prende una laurea e un master in filosofia e comincia a collaborare con prestigiose riviste e case editrici di settore, fino ad arrivare a fondare insieme ad altri amici l’influente gruppo di critica sociale, intellettuale e politica CriticAtac, ma di base è nato in Urss, non si discute. Non si discute al punto tale da intitolare il suo esordio letterario proprio in questo modo. Nato in Urss esce nel 2006 e subito ottiene premi, tra cui il “Book Pitch” alla London Book Fair. Io l’ho conosciuto nel 2010, quando la casa editrice Hacca lo pubblicò nella sua versione italiana per grazia della traduttrice Anita Natascia Bernacchia. Su Vasile Ernu va detto poco perché va letto. Io lo leggo spesso, tipo vademecum. Me lo leggo ovunque, bagno incluso, perché nonostante lo spessore culturale e intellettuale di questo signore, i suoi libri sono per tutti, per tutti i luoghi, per tutti i tempi. Ci sarebbe da ridire sul suo modo di scrivere, i critici dabbene direbbero che non appartiene a “scuole”, ma ho la netta convinzione che al Vasile scrittore e uomo poco importi della borghesia intellettuale. Del resto, lui è nato in Urss e lì non si scherza niente.
Nel 2012 esce, sempre per Hacca, la traduzione del romanzo Gli ultimi eretici dell’Impero, un gioiellino da maneggiare con cura. Un romanzo epistolare, proprio a volergli appiccicare addosso un’etichetta. A me piace pensarlo, invece, come una raccolta, sì, di lettere tra due tizi che poi capirete in che relazione si trovano, ma principalmente come una raccolta di pensieri belli che Ernu ci regala con un registro tanto brillante da farci dimenticare che di tragico si parla. Proprio come in Nato in Urss, anche in Gli ultimi eretici dell’Impero si sorride, a tratti si ride, e si va tanto di lapis. Ma ora, senza troppo indugiare in inutili parole accessorie, lascio a voi le sue parole.
Nato in URSS
Ho lasciato questo Paese nel 1990. Volendo parafrasare Vladimir Majakovskij, potrei dire: leggete, invidiatemi, anch’io sono un cittadino dell’Unione Sovietica. L’URSS è il mio Paese, la patria nella quale sono nato e vissuto. È un Paese che non può lasciarti indifferente, qualsiasi rapporto tu abbia avuto con lui, che tu lo ami o lo odi. Spero che quanto segue non vi sembri né amore né odio, ammesso che siano due cose diverse. Indifferenza non sarà di certo.
L’Unione Sovietica non è stata solo un Paese, è stata molto di più, è stata il più grande progetto politico utopico della modernità. Un Paese in grado di meravigliarti, di affascinarti, con un fascino che lascia tracce e ferite profonde. Come direbbe la prima intellighenzia rivoluzionaria degli anni successivi al 1918, in URSS non era l’arte a imitare la vita: era la vita che doveva farsi arte. Lì abbiamo interpretato tutti la più grandiosa partitura politica del XX secolo, scandita da slanci eroici, sforzi disumani, tragedie sconvolgenti, vittorie e sconfitte sanguinose. Lì abbiamo interpretato una partitura in cui eravamo tutti contemporanei. I nostri eroi, le grandi personalità e i personaggi, le parole e gli oggetti, a prescindere dall’epoca reale in cui erano nati e vissuti, abitavano accanto a noi, nella stessa komunalka denominata URSS, divenendo nostri precursori e nostri contemporanei a un tempo.
Sono stato testimone di uno dei progetti più utopici dell’umanità, sono stato testimone di un progetto incompiuto, ne ho visto la gloria e il declino. È di questa utopia che voglio raccontarvi. Tutto quello che ho scritto è narrato alla luce di una doppia esperienza, che non è necessariamente inedita. Si tratta, da un lato, dell’esperienza diretta di un cittadino vissuto nello spazio sovietico, dall’altra di un’esperienza colta, culturalmente mediata. Entrambe hanno contribuito a rendermi un prodotto made in URSS. Per me è quasi impossibile distinguerle l’una dall’altra. Allo stesso tempo, il mio racconto riflette il punto di vista di un homo sovieticus, un prodotto di questa terra e di questa cultura. E mi sono proposto di non attingere direttamente all’armamentario intellettuale che ho acquisito in seguito.
Quel che cerco di fare è una sorta di archeologia della vita quotidiana in URSS, intesa come metafora della cultura e della civiltà sovietica. Il testo che segue, scritto alla maniera di un “genere eretico”, tenta di condensare temi, eroi, situazioni, ricordi, oggetti e parole-chiave in un puzzle composito. Anche se ogni frammento-testo del puzzle può essere letto singolarmente, l’intero è comprensibile solo assemblando i pezzi tra loro. Questo insieme non ha la pretesa di costruire un’immagine esaustiva, oggettiva ed esatta di quel che è stata la cultura sovietica. È un’archeologia soggettiva, personale, che intende suggerire tracce, stati d’animo, modi di pensare e di parlare tipici di una cultura, infine schizzare un quadro della mentalità culturale sovietica. Non propone una chiave di lettura, un giudizio morale o di valore, ma invita a una familiarizzazione che ci può aiutare a capire meglio cosa è stata l’Unione Sovietica e cosa significa la sua mancanza.
Naturalmente, il rischio di parlare della vita quotidiana di un’epoca trascorsa comporta, senza volerlo, una certa dose di nostalgia. In primo luogo, però, come concetto, la nostalgia è in diretta contraddizione con l’homo sovieticus, per il semplice motivo che è un’utopia rivolta al passato, mentre lui crea utopie rivolte al futuro. In secondo luogo, la nostalgia, come forma di ritorno a casa, è impossibile, poiché per noi homucus non esiste più un a casa. E, se pure esiste una nostalgia, essa non mira a ricostruire il passato, bensì a raccontarlo, a rimemorarlo. E poiché, in teoria, la nostalgia si distacca molto dall’ironia, visto che entrambe agiscono nella doppia contemplazione dell’oggetto e del soggetto, io le mescolo e rivivo il passato con uno sguardo nostalgico-ironico.
Guardando indietro, mi rendo conto che, una volta scomparsa l’Unione Sovietica e il comunismo, qualcosa è andato perduto. Non saprei dirvi che cosa. Forse si è perso un certo pathos, un certo modo di vedere le cose e di vivere la vita di tutti i giorni, o forse l’entusiasmo e la voglia di credere ancora negli ideali, o, ancora, una certa maniera di soffrire. Non sono in grado di identificare con precisione la perdita, ma ne vivo tutta la tristezza. Ritengo, con buona convinzione, che sia stato perso qualcosa di essenziale e significativo nella nostra esperienza umana. Ma questa perdita non può essere né sostituita, né riabilitata. Con un po’ di buona volontà, ritengo che una perdita del genere possa essere solo compresa.
Ogni tanto mi capita ancora di voler comprare un biglietto per andare in URSS, ma ogni volta devo ricordarmi che un oggetto del genere non si trova più in vendita. Non ci sono più treni, né aerei, né strade che portano in URSS, per il semplice fatto che l’Unione Sovietica non esiste più. L’unico mezzo per visitare il mio Paese è la memoria. Il testo che segue è il racconto di questo ricordo, di questa avventura incredibile.
Gli ultimi eretici dell’Impero
Importante, qui, è il rapporto tra lo stato e i suoi cittadini. Dal modo in cui è costruito lo stato deriva anche il rapporto che intrattiene con loro. Nel comunismo, tutto era concepito secondo decreti, postulati e direttive. Nel mondo capitalista, la lingua si svigorisce, di certo non scompare, ma acquista un altro significato, un’altra funzione. Si fa strumento finanziario, economico, assume una funzione economica. Poiché non comunica con i suoi cittadini attraverso le parole, bensì attraverso il denaro, il regime capitalista è essenzialmente sordo e muto. Le fatture, le carte di credito, i prestiti, le assicurazioni e soprattutto le imposte rappresentano le forme in cui uno Stato del genere interagisce con i suoi cittadini. La lingua è superflua, ha un carattere puramente estetico, funzionale e commerciale, nulla di più.
Da qui il diverso ruolo svolto dagli intellettuali dei due sistemi. Nel sistema comunista hanno una funzione essenziale, dato che sono l’unico gruppo a detenere un’autorità in materia di fondazione della lingua, strumento del potere statale. Erano quelli che producevano i testi così necessari al regime, ovvero la narrazione del potere mediante la quale lo stato si imponeva. Nel comunismo, l’intellettuale legittimava o delegittimava il Potere, l’Autorità. Nel sistema capitalista, costui assume una valenza puramente tecnica, divenendo più che altro un membro qualsiasi della società del commercio, in cui tutto è in vendita. Qui la lingua non assume più una valenza politica, ma soltanto commerciale. Tra il banchiere della Banca X, il concessionario di automobili Y e l’intellettuale dell’Università Z non c’è più differenza, poiché tutti vendono, in realtà, un determinato bene: denaro, automobili o testi, conoscenze. La lingua e i testi diventano una merce con pari diritti, soggetta alle norme di mercato. Il credito, lo status e il potere di cui l’intellettuale godeva negli anni del comunismo perdono contorno, e nella nuova società capitalista a quest’ultimo non resta altro che sedersi buono buono al bancone, accanto agli altri membri della società, per far negozio.
Lo ammetto, nutro una certa simpatia e ho un debole per chi ha il coraggio di rompere i confini di certi cliché, di sviluppare le idee spingendole il più lontano possibile. Mi piacciono le persone dalle “idee rischiose”. I conservatori mi annoiano a morte. Raccontano all’infinito le solite storie, sono come dei dischi rotti che ripetono meccanicamente le stesse cose, e penso che non potranno mai inventare nulla di nuovo. Il conservatorismo è come un cadavere: possiede un equilibrio perfetto. L’avanguardia è un fenomeno che adoro, sia in arte che in politica. In politica, tuttavia, sarebbe auspicabile fare più attenzione, specie dopo l’esperienza del XX secolo: nessuna idea deve diventare causa di sacrifici umani. Odio la violenza, benché l’avanguardia presenti nei suoi atteggiamenti un che di violento, vale a dire un grande coraggio nel voler spezzare ogni legame con un mondo che considera morto e sepolto. In tutto questo meccanismo c’è qualcosa di fragile.
Una mente sobria non è la qualità principale di coloro che prendono in prestito, ma di coloro che danno in prestito. (…) Nel “Times” ho letto con stupore che un giornalista proponeva, quale strumento di lotta alla nostra eterna “transizione” e alle sofferenze di tale eterno “stordimento”, di bere sei bottiglie di Coca Cola. Lo ammetto, ho visto rimedi e varianti anche poco umani, o forse troppo umani, per contrastare questa condizione “politica”. Ma a soluzioni del genere ho reagito in maniera radicale: mi spiace ma sono persuaso che l’organismo torturato del cittadino che abbia vissuto l’“alcolismo”del comunismo e viva oggi lo “stordimento” capitalista della transizione non possa sopportare un livello tanto elevato di ideologia in corpo. Un’overdose di ideologia può ucciderti. Tutto sommato nella vita ci sono cose che non si possono mischiare.