Le lampare alla fine del mondo
Così mi capita un sogno. O era una veglia. O non saprei. Sono già adulta. Sono Ofelia. Il mio viso affiora dalle acque. Le acque veramente si restringono, come una risacca che si incunea al contrario, non sommerge, arretra. Adesso aggiungo alcune cose.
Su Ofelia si abbatte l’ombra di un salice. Il fiume Hogsmill è placido. Ma Ofelia freme in un sonno delicato, privo di angustie.
Non sapevo che il salice piangente traducesse la disperazione di un amore respinto. Il salice sbatte sui vetri della mia finestra, quando il vento spira dal mare. Sbatte o si incurva.
Il picchio allora si libra in volo audacemente, con fretta.
A volte, per questo, sorrido.
Nella veglia, prima di addormentarmi, sono Ofelia. Vesto un tessuto dorato o forse colore dell’ambra. Apro gli occhi e ne vedo altri pii e gioiosi, sono creature angeliche. Mi sveglio, e gli occhi degli angeli pii e gioiosi mi osservano, sono il gesto della misericordia, le braccia materne; Ofelia apre gli occhi.
Il verde tutto intorno è vibrante, è un pigmento puro. Tra il verde, noto il rosso carminio della rosa, una pala di mezzo. Il paesaggio si succede tra costoni di verde e arbusti splendidi. Il cielo si infila e bordeggia dentro sentieri sterminati, nella prateria.
Sono sveglia.
Monica non amava i fiori. Non li guardava. Non guardava nulla. Non aveva curiosità.
Il vecchio le comprava enormi bouquet, a ogni stupido anniversario. Monica li poggiava distrattamente su un piano e magari accendeva la sigaretta e si dedicava ad altro.
I fiori marcivano.
Io non amavo i fiori raccolti. Ma non li avrei fatti marcire. Ero diversa da Monica. Avevo una certa sensibilità. Monica rideva della mia sensibilità, che non disdegnava di farsi mantenere, da uno come da un altro.
Non avevo un vecchio cornuto a opprimermi ogni giorno, però. Povera Monica. La latebra di Monica era un vecchio cornuto.
Sono partita con i soldi del vecchio cornuto.
Oh, per tutti, era la borsa di studio. Non c’erano sentinelle vergini a controllare. La mia libertà era pari a quella delle altre. Sregolate, animaletti ignari, mentre i giorni rapivano piano piano le nostre innocenze, a modici brani. C’era da morir dal ridere. Inavvertitamente, vivevamo.
Avete mai visto uno studente della scuola del piccolo Bronx meritarsi una borsa di studio?
Piuttosto gironzolare, nello smercio furtivo di quartini di carta stagnola nascosti sotto il vaso, in cortile, dove agonizzava la noiosa aspidistra.
Maggio era l’esplosione di blu o azzurro. Ovunque guardassimo. Guardavamo il cielo, anche se non amavamo i fiori. Ferme sul lungomare. Fissavamo oltre. Le lontananze turchine. Il gabbiano sulla cima dei flutti. Ondeggiava, una strana gravità lo sorreggeva. Le ragazze tacevano, stordite, dalla vita che era più tenace di ogni cattiva abitudine.
Le nostre cattive abitudini si sottraevano al miracolo dell’azzurro sul lungomare. E ci lasciavano sole, finalmente. La sera tornavamo alla nostra cattività. Il night. Un simulacro sbagliato.
I nostri carcerieri erano lì, al solito tavolo. I flûte. Lo spumante nel cestello. La sonnolenta composizione di azioni umane, che si sommavano, definendo il lugubre parterre.
Le ragazze servivano a alimentare la lugubre e sonnolenta disposizione di gesta, pulsioni, inanità.
I nostri piedini producevano eccitanti scalpiccii. L’idiozia di un uomo che pensa con una faccenda frapposta sul cavallo dei pantaloni. Una ridicola erezione per autodeterminare un fatto. Una verificabile esistenza, chiamata virilità. O centrismo fallico.
Indossavo l’abito di Monica. Nero, sudato, dolciastro. Voglio dire, insozzato di un profumo madido e dolciastro.
Nero, asciutto, dal collo alle caviglie. Non avevo morbidezze da mostrare. Inciampavo sull’orlo. Le scarpe altissime mi dolevano ai piedi.
Scarpe da puttana.
Dai un nome.
No, non è vero. Scarpe da Lolita delusa. I sogni infranti e la malinconica vetustà del rammarico sul faccino da mostrare, corredo preziosissimo, con cui adescare barbogi.
Invece.
Il mio amore muliebre era un cencio esangue.
Si era fatto troppa roba, l’idiota. Mi alzai, gli altri, i signori, notarono l’imprevisto.
Le ragazze sono già stordite. Cerco l’idiota. Il pensiero di Timò si intromette. Timò è diventato un avvenimento epico e irraggiungibile. Mi sembra che non sia mai esistito. Timò. E tuttavia cerco l’idiota. Lo trovo steso, nel retro delle cucine di uno squallido night di periferia.
Mi guardo intorno. Poi guardo lui. Steso per traverso, tra un mondezzaio e una dispensa di casse di legno.
Lo guardo nauseata. Era un verme.
Non era capace di un vero colpo di reni.
Uomo dai desideri cascanti, inutili. Non muore, non ancora.
Dorme.
Non come dormiva Ofelia. Ofelia e il suo sonno erano di altra specie. L’ottenebramento accidentale. Ofelia cantava mentre si abbandonava all’ottenebramento e ogni stoltezza dileggiava nel tiepido ruscello su cui albeggiava o favoleggiava nel crepuscolo il salice con le sue nobili fronde.
La notte si apriva verso la luce delle lampare sulla fine del mondo. Le lampare alla fine del mondo, luccichii dentro cui immaginare uomini scoperti dalla vita rude e dai recessi del tempo meschino. Rabbrividisco.
Nella notte, ascoltavo il borboglio del mare, sopraggiungere. La notte profumava, di gelsomini, e si alzava in volo con il falco in cima al firmamento, pronto a piombare verso le lampare.
Allora pensai: io sono fatta di questo, della primitiva ingordigia. Io sono illuminata, persino nella notte, da una ostinata ineluttabilità. Così è il profumo della notte, a maggio.
(continua)
Copyright © Veronica Tomassini
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