Come in un romanzo di Miller. Lo scrittore che amava tanto mio padre. Forse poteva andare meglio, mi dico, in preda a una inestricabile nostalgia. Cosa mi manchi non lo individuo ancora oggi. Sono stata la ragazza imperfetta degna di un ricovero al McLean hospital. La ragazza interrotta di Susanna Kaysen.
L’inghippo che ti separa dal resto. Il resto non lo chiamerei mondo, il resto è di più, sono le intenzioni, i rimpianti, le lacrime e le bianche manine strette al petto, strette alla veste che mi cola addosso come la cera di un tormento. Non solo il castigo, l’azione che rapisce, sottrae, restituendo alcune virtù, di cui non sappiamo molto. Si depositano in gran segreto. In un recesso, un forziere, mute aspettano di arrampicarsi lungo il sentiero che conduce l’essere umano alla sua empietà.
Empietà è una parola che non risuona come dovrebbe. Perché la si usa troppo, con esultanza, con una contrita consapevolezza pronta a succedersi alla trasformazione consolatoria, in origine epica, presto barocca e demagogica. Battiamoci il petto, abbiamo patito, epicamente, gloriosamente.
Avessi esordito così, un tempo, avrei scatenato l’ilarità delle ragazze, il loro sorriso incredulo, poi tremebondo, poi feroce. Cosa accidenti vuoi dire?
Non lo so. Mi afferrano le visioni che attraversano un luogo, un punto metafisico. Scrivo da dentro una meta-spiegazione. La meta-spiegazione procede sopra o sotto le amenità, le isole, gli uomini.
Così torno a me. In quegli anni. Seduta al banco della seconda fila. È la scuola del piccolo Bronx. Osservo la donna gesticolare alla lavagna. Le formule rigano il piano di ardesia. Il gesso stride, uno suono acido. Mi irrita. È solo disarmonia, disordine. Il prefisso che disturba. La scuola del piccolo Bronx. La donna scrive, gesticola, ogni tanto preme le dita eleganti al foulard di seta fucsia che tiene annodato al collo. Osservo una vita esplicarsi, l’esempio di una vita, avrebbe dunque dovuto essere la stessa, per ognuna. Avremmo smesso di agitarci.
Povere bestioline. Sarei diventata una signora, una tizia perbene, che indossa foulard al collo. Poggiai la testa sul banco della seconda fila. Poggiata da un lato, lo sguardo in direzione delle gratelle. In tralice, sorprendevo anonimi fendere il giorno, gli isolati fendere le vie, i rigagnoli insozzare di ibridi olezzi il rione.
Fuori la vita misera invitava a infrangere, esultava nella violazione del rigore morale che sconoscevamo.
Neanche adesso saprei concentrarmi sull’importanza di un rigore morale che attanaglia più che inforcare – mediamente possibilista – le verità, quali, alcune. Alcune?
Una sola. Una sola verità, che basti a sciogliere il processo immaturo all’umano genere, carne sbandierata in apparenza, covo di putridume. Sbaglierete. Sbaglieremo tutti, nati per la defezione. In essa saremo o trionferemo deboli. Bisogna essere deboli. Non cercate maestri. Cerchiamo misericordia.
Le ragazze sono fatte per procurare errore e indignazione. Ingeneriamo resistenza, o sospetto. Il che è uguale. Ingeneriamo incomprensioni e malafede. Di questo ci compiacciamo.
Siamo vedette, sulla riva del lungomare. Ci troverete lì. Alle prese con il medesimo azzurro, non abbiamo altro. Alziamo gli occhi per seguire i gabbiani, notiamo il loro cupo o isterico gorgogliare, preciso al mare quando si avvicina la nuvola grassa e tesa. Non piove. Non pioverà.
La nuvola grassa e tesa trasforma l’azzurro nel blu di prussia. Le palpebre sono stanche, dormiamo poco. La nostra vita somiglia alla vita di una adulta che ha sfrondato pietosamente tutti i graticci. La vita perduta di una adulta che ha smarrito il sentiero; il sentiero che conduce l’uomo al suo errore.
Sono appena tornata da Parigi e già frana il vago ponte che mi teneva stretta a Timò. Al suo ricordo. Nella stanza infestata di blatte, in un edificio severo, dedito all’inafferrabile stile cosiddetto Haussmann, sopra la stazione di Saint Lazare, stavo alla finestra, la sera, a volte. Stavo alla finestra. Leggevo i naturalisti, Timò mi dava consigli su alcuni autori, con lui potevo essere finalmente la ragazzina curiosa che ero. Chiedere, leggere, guardare. Guardare il resto, lo chiamavo mondo, a Parigi, il resto diventava terrore a lasciarlo fare.
I treni correvano e ronzavano su possibilità sconosciute, pensieri che oltrepassavano palizzate, i treni come i pensieri.
Talvolta, preferivo passeggiare sola sul boulevard, mentre ascoltavo cigolare le rotaie dei tram, o in lontananza ancora treni. Binari metallici arzigogolati come la mia attesa. Anche allora. Una attesa senza consolazione certa, eppur sottaciuta. Arzigogolata. Sì, avvinta. O ancor meglio, attinta alla strana specie di felicità che mi sembrasse consegnare l’amore, quando il medesimo lo equiparavo a un fatto atipico: la vita turgida, lo splendore, una qualche forma di luce che non fosse il sole che ci atterriva all’alba, nel lungomare, soltanto perché ci ricordava la disdetta di una notte di incoscienza, le nostre notti cineree senza appunti o petali di rosa da conservare in un diario.
Parigi era una memoria confacente. Le sue strade, persino il mio amore per Timò. A Timò raccontavo le letture apprese precocemente, lui capiva, non ero diversa con lui, al massimo ero speciale, così infantilmente, come lo si è quando qualcuno ti ama, perché sei tu, non perché sei buona, non perché sei cattiva. A Timò raccontavo la città che era di Miller, la Parigi degli scrittori. Non erano mica solo vagabondi debosciati, con la patta sdrucita. Rideva Timò.
E io allora diventavo rossa e testarda. Rubizza, avrebbe scritto Miller, imprevedibilmente. Diventavo rubizza. E allora Rodin? Piagnucolavo con saccenza. La meticcia Cecily? L’ebreo errante? La morte nera? L’uomo tagliato a fette?
Timò rideva e poi prendeva il mio viso tra le mani come a cercare una risposta. E io credo che alla fine la trovasse. Così mi baciava. Ed ero felice, senza nulla concedere, in cambio, che la dolorosa felicità. Non lo strazio, o l’inenarrabile sacrificio di Abramo o Isacco. Il figlio. L’agnello.
Oppure sedevamo alle terrasse di qualche arrondissement, con le peonie sui davanzali delle case aristocratiche.
Chiudevo gli occhi appagata. Sai, Timò, non devo più cercare altro. Dissi. Il tempo era un tempo nuovo, con le peonie ai davanzali. Che mese fosse, non ricordo. Tu pensi, Timò, che il nostro amore durerà per sempre?
Timò io non sono una fica e basta.
Timò mi teneva la guancia, con la mano, bianca, grande.
Timò, io non ho mai pazienza e un giorno dovrò tornare. Dove? Alla fine del mondo e di tutte le cose e tu non ci sarai.
Non sarà già una morte questa?
E sai Timò non ho fatto che morire o affliggermi – è lo stesso – nell’illusione di una separazione foriera di enormi vessilli, il vessillo su cui cade l’amore.
È un errore, Timò.
L’amore non mi ha conosciuto, non mi ha voluto.
L’amore o qualsiasi cosa voglia dire, qui. Quaggiù.
L’amore per me ha un solo stigma. Lo chiamerò lo stigma dell’impossibilità.
Oggi sono adulta e potrei avventurarmi in arrangiate spiegazioni, aiutata dalla fede?
La mia fede. Come ciottoli sulla trave durante la buriana.
Sii saldo, e spera. Sii saldo.
E in un salmo gettarmi.
Esiste il giorno, ogn’ora, dove tornare, ovvero alla fine di tutte le cose.
E questo lo chiamo: destino.
(continua)
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