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VERONICA TOMASSINI INEDITA. FOREVER – CAPITOLO 22

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“Non disse ti amo”

Ho davanti il ventaglio infinito. Oltre le nubi, dense, incerte sul violaceo che esprime la caducità fissa del tempo. A ogni crepuscolo. La strada brucia. Il sole lancia molteplici saette, si insinua lungo giacigli adamantini, nascosti, malgrado l’asfalto bruci, la discrepanza tra cielo e terra contiene l’epifania. Lo guardo dalla prospettiva del mio cammino, un monologo solitario. L’asfalto brucia in memoria del giorno. La strada si allunga, la piana metafisica di bitume, al di qua del porto. Uno sciame buio mi sfiora nel gesto che plana, tra fronte e cielo. Sono storni.

E la strada infinita si presta come la metafora delle cose che, succedendosi, replicano l’identico refrain. Spariscono. Se la stanza della memoria non le contiene, qualcuno dimentica di aprirla, non sono mai esistite. Noi siamo solo memoria. O è un ingranaggio chimico e stoltamente e elegiacamente non conta nulla altro, non questioni afferenti allo spirito. Allora siamo solo un ingranaggio, filo spinato, che risale faticosamente l’inutile china. O siamo altro, chiuse tutte le stanze della memoria, apriamo altri forzieri, segreti, terrestri e segreti, o sovrastanti e prossimi ad annunciare, profezie incandescenti, sovrapposte, collocate nell’ordine superiore non ancora svelato. Si sveleranno.

Le ragazze come le pietre di inciampo, siamo aneliti, l’edificazione del rifiuto che diventerà qualcos’altro. Procuriamo raccapriccio, quella nausea morale che irrita la collettività o certa individualità di ceto medio, capace di intenderne una qualche peculiarità con la duttilità delle cariatidi. Eravamo lì apposta, la distesa incomoda d’erba alta, gramigna o fermabue, roveti di insulsa morale. Così bardate delle nostre colpe, ne commettevano altre.

Scagionate dalla natura del legno storto, perfezionavamo l’errore.

Monica aveva un’automobile nuova, comprata dal vecchio.

“Non chiamarlo il cornuto” diceva, a rimprovero. Lo diceva a me. Le altre lo chiamavano: il cornuto.

Ridevamo.

Le ha comprato un’automobile. Un’Alfa 33.

Consuma un sacco. Diceva lei. Come se ne capisse di motori. Bisogna saperci fare, diceva, Monica.

Sì sì sì. Monica.

Io sono fradicia di sentimento. Monica scuoteva la testa, le ragazze sedute sul letto fumavano e ogni tanto asserivano, le gambe incrociate sulla trapunta di seta, nella camera rosa o pesco, devo capirlo ancora, dipendeva da come arrivasse la luce, oltre gli scuri. Insozzavano la bella trapunta con gli stivali sporchi di fango.

La piazza aveva tratti di campagna molle di terra marcia. I nostri stivali si sporcavano di fango. In casa di Monica bisognava togliersi le scarpe per il parquet. Non lo facevamo. Perché Monica ci ordinava di disobbedire così che potesse urlare alla madre di andare a farsi fottere, di crepare, brutta troia.

Volevo rivedere l’uomo della Mercedes. Volevo scopare con lui.

Lo dissi e mi vergognai. Monica mi suggerì di lasciarlo perdere, di pensare a Timò ché tanto non c’era più, “e non ti può far male”; o al massimo riprendermi il verme del tossico, ché tanto prima o poi moriva.

Tuttavia la chance di percorrere la strada meno opportuna mi seduceva sopra le altre. Non era importante l’amore, ma la strada meno opportuna.

In piazza lo avevo visto il verme. Si trascinava sulle gambe. Le palpebre erano pesanti, come uno che si è appena fatto di ero. Aveva dimenticato la manica della camicia avvoltolata al gomito, la pista in evidenza, il sangue raggrumato. Le vene erano piste, erano cisti, gangli. Il tossico non ne trovava più.

Mi parlava, allora che mi riconobbe, in quale visione non saprei dire. Ero il suo trip. Mi riconobbe, la sabbia alle labbra, rigagnoli risalivano le latebre. Sedette sotto l’arco. Smise di trascinarsi. Dormiva da desto.

“Sono tornato”, farfugliò. Da chi, idiota? Da chi sei tornato? Da me, ribrezzo del mondo?

Non dissi nulla. Accesi la sigaretta, l’ultima Marlboro, lanciai il pacco vuoto, accartocciato, finì nell’aiuola irrigata da acqua putrida. Un tale si avvicinò, vendeva anfetamine e acidi. Non avrei mai calato un acido. Il mio amico ancora corre disperato, dal suo primo trip. Lo hanno dovuto fermare in una clinica. Ma lui non smette di agitarsi, febbrilmente, fugge dal terrore. Non è uscito dal viaggio, capite? Non ne è uscito più. Vai fratello, dissi.

Era brutto come la morte. Butterato. Un poveraccio, un figlio della miseria, abusato, seviziato, finito in riformatorio, uscito. Spacciato, capite?

Mi disse il buttero: “ti amo”.

Spengo il mozzicone sotto il tacco dello stivale. Ho le gambe scoperte, senza calze, intrecciate come può uno stambecco.

Risposi: io no.

Gli occhi a terra.

Il buttero disse: guardami, per favore.

Lo guardai. I suoi occhi erano timidi, piccoli, umidi di rimpianto. Era il bambino che frignava. Il bambino svezzato dalla bestialità del soggetto definito uomo o carne fremente di laidezza. O cane rabbioso a latrare.

No non ti amo.

Lui aveva occhi piccoli e timidi, i teneri riccioli chiari.

La pietà tuonava da qualche parte, nel centro della volta celeste, nel buio del mistero non sondabile. La pietà urlava, deflagrava.

Mi tappai le orecchie. Ora le mie mani stringevano le tempie. E allora chiusi gli occhi, non dissi come allora a Timò: non devo cercare altro. Dovevo cercare invece. O mettere a tacere il fragore dell’oceano che si solleva, scoperchiato il crimine innominabile, il sentimento puro che si pianta in mezzo, la lama che seziona. Il buttero riesce ad amarmi.

Io non lo conosco.

Vai via. Urlai.

Lui andò via. Le spalle curve e magre. Salì su una motoretta rombante, con fastidio, il disordine, la disarmonia. La motoretta rombava con acredine. Sopra il buttero e la sua insulsa vita, lezione encomiabile di disdetta e umiltà. O altre spiegazioni così elevate da scuotere la terra, fino alla fine del mondo e delle cose. Scuotere e noi tremare. Violenta è la pietà, violenta come la terra che si scuote e esonda dagli intestini, tremeremo perciò, inghiottiti dal suono tremendo. Il buttero andava e io vedevo la pioggia di fuoco, il cielo ardere, il buttero era il cherubino, la motoretta rombante diventava un liuto.

Vai via, urlavo.

Il pederasta di Van Norden disse a Miller, nella Parigi della Coupole: trovami una fica, vuoi?

Pensava di essere un gran tipo. Leggevo Miller per intendermi con un mondo sudicio abitato da sessuomani, in erezione.

Il mio mondo non era fatto per le educande. Forse per questo leggevo Miller. E allora cercavo qualcosa. Volevo rivedere l’uomo della Mercedes.

Il mio inutile punto di vista si chiama errore. Stavolta. E ogni chiusa non è solo il destino, alternerà l’inciampo e la mestizia.

E ogni errore sarà l’offerta perché, nella contesa perenne, altri si salvassero. Che l’antieroina funzionasse al suo contrario, per nutrire le buone intenzioni e per contrasto tutte le carità.

Monica sorrise con perfidia, il suo sorriso disperato. Disse: non credere che ti amerà mai.

Il verme del tossico si tirò su, mise un granulo sotto la lingua, calò il suo trip. Prima di andare, mi guardò una volta, anche lui. Non disse: ti amo.

Ma a me non importava.

(continua)

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Leggi anche il capitolo 21

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