Il mare si arrotola nell’identico imperioso avanzare. Il gabbiano sulla roccia ha una misteriosa fissità. Le ragazze guardano la medesima fissità. Sappiamo fare questo, un esercizio di aristocratica indolenza. La luce del solaio sembra elettrica, l’ultimo balzo verso l’alto, una chioma diroccata di pietra bianca, bruciata dalle intemperie. È il raggio del crepuscolo che resta a irrorare, intrappolato nell’antico andito. Il graticcio di rame frana, tutto è decadenza e trascuratezza, dove io più che mai vorrei intervenire con nuovi guizzi, castità, mitezza. Il nostro splendore, sì, certo. Le mani deboli e irte di ostinazione o di famelico bisogno agganciano la cimasa del parapetto, di quale specie verrebbe da domandarsi (e intendo il nostro splendore, lo splendore di una stagione). O noi stesse, creature esemplari sparse, dedite a una quantità infinita di stoltezza, da quale magmatico improperio proveniamo?
Il nostro canto devoto, non più immacolato, avvoltolato nel tempo che si srotola, da cui riannodare le verità, lontanissime, e salde, la parola che risuona e la verità da annodare. Saldissima. E noi? Per deduzione: e noi?
Siamo diventate qualcosa di incompiuto, lo siamo perniciosamente, lo siamo per demarcare l’ingannevole confine tra bene e male.
Ritengo ingannevole quel che non ne sia all’altezza. Il bene è il torrione che detiene persino un’ombra, ma l’ombra è soltanto l’immane presenza, per inversione, la sottrazione che conferma la luce. Il male soggiace, poveramente, blando, il cui unico clangore è un modesto squittio. Ha già perso, il male.
Finanche noi – le ragazze delle quali vi riferisco – che esosamente potremmo restituirvelo nella forma del disordine, siamo senz’altro una pallida disarmonia perché – voi che ne leggiate le imprese (modiche imprese) – possiate sorprendere l’incauta grazia, per antinomia. Incauta antinomia.
Restavamo a fissare il vento annodarsi, nella dimensione verticale, che pareva seguire il fenicottero. Dall’altro canto, il gabbiano rimodulava mestamente una sua visione del mondo. Noi inani e inghiottite dalla prospettiva così cara, lungo la linea oltre cui solcavano petroliere e navi da crociera, dove per tutti era il futuro, per noi dimorava la fine. La fine del mondo e delle cose.
Era l’estate di molti anni. E io ero una ragazza. Io.
Monica vestiva abiti sfolgoranti. Luccicavano tutto intorno, non indossava biancheria intima. Il vecchio le avrebbe comprato tutte le galassie. Io non avevo che il residuo di quel luccichio, l’illusione laminata nel mio modesto cencio, da due soldi. Farsi mantenere era un mestieraccio.
Avete mai visto gli occhi di una giovinetta, oltre un vetro, di una lussuosa automobile, guardarvi tragicamente, con il veleno e l’acredine, la nostalgia, la mancanza del grazie sospeso, in gola, come un pianto; e il pudore che avrebbe dovuto mercanteggiare in cambio di una qualche preziosità?
Così alla fine della notte, lei guardava noi, mentre andava via, con il risentimento e la pazienza. Noi eravamo le corolle di fiori, una dietro l’altra, nella strana commovente geometria, una piega naturale degli avvenimenti, una diagonale che li inforcava e per traverso non contribuiva a renderli migliori.
Come se si avesse un seppur minimo potere nelle vicende della vita. Sì?
La notte era mansueta. In apparenza. Nel club era la solita mescolanza ibrida, o il medesimo tripudio di ignoranza. Il tossico era vestito di bianco. Era molto bello. Niente a che vedere con Timò.
Timò. Una primavera. L’incanto. Non saprei aggiungere altro.
In rue de Sèze, c’era una galleria. Gli uomini del romanzo di Miller. Le donne di Matisse troneggiavano in saloni vitrei e dalle pareti d’oro.
Io e Timò guardavamo con il naso in su, alle trifore oltre le logge del precipuo stile parigino. Ed era una ridondanza orgogliosa.
Saì, Timò. Dissi.
Sai, Timò. Io vorrei diventare una scrittrice.
Miller nominava i rabdomanti, i maestri russi, sai Timò. Oppure, Hamsun. Lo conosci?
Tout compris.
Ti sembra ingenuo amare qualcuno, Timò? All’improvviso?
C’è un altro modo? Rispondeva, lui.
Ho un’aria delusa.
Van Norden era un vecchio sessuomane. Punto. Farneticava le sue erezioni, mischiandole a vaneggiamenti di ordine filosofico.
Lo dissi a Timò, mentre ammiravamo la ruota di un pavone, dai colori febbricitanti, al Jardin des Plantes. Per la prima volta vidi rari esemplari di Pellicani.
I pellicani di Chapultepec.
Tutto era Parigi.
Perché sei tornata? Chiese Monica con perfidia.
La sua perfidia era l’alterità dello stesso registro, la comprensione patetica. L’inesorabilità era un tratto del destino che oggi mi compiaccio di chiamare così. Destino. In quegli anni, il destino erano semplicemente: anni. Giorni. Settimane. Mesi. Anni.
Io ero mademoiselle. La donna francese, graziosa e sfuggente, che riparava sotto un ombrellino in un giardino di Montparnasse.
È vero, Timò?
Mi tese la mano. Così, mi strinse a sé. Con il suo braccio serrato, la mia schiena debole, vibrava nella presa. Ballavamo, piano, io inciampavo sui piedi, le gambe magre non reggevano la felicità. La felicità è una parola duttile, che solo le ragazze possono usare, maldestramente.
Parigi.
Tutto era Parigi.
E io ricordo i suoi occhi, il blu di Prussia. Lo stesso blu di Prussia, che alla fine della notte, vagheggiava nella nebbia salmastra del lungomare.
Potrei disquisire sull’amore. Le ragazze parlano sempre d’amore. L’amore è quel che non succede. Siamo perdonate. Sì?
Allora, capite, la ragione delle ragazze è l’inesorabilità, è l’amore quando non succede.
Tutto era Parigi.
(continua)
Copyright © Veronica Tomassini
Leggi anche il capitolo 22