Non c’è pietismo in Mazzarrona, romanzo di Veronica Tomassini, ma compassione nello sguardo lucido dell’autrice che riesce a coniugare un ritmo evocativo e poetico a una narrazione che non perde di leggibilità.
Al centro del romanzo le esistenze di un gruppo di adolescenti che crescono tra gli anni Ottanta e Novanta, ambientate in una periferia siciliana che diventa metafora di tutti i quartieri degradati.
La protagonista è una diciassettenne il cui nome non viene mai pronunciato in tutto il libro: racconta la propria adolescenza occupata da un vuoto interiore (che comunque è già qualcosa) e da un senso di noia esistenziale che la costringe a fuggire dal proprio ambiente per rifugiarsi tra le case di periferia, dove frequenta altri giovani per la maggior parte perduti nella droga.
Si innamora di Massimo, “un ragazzo tragico che dimentica sempre qualcosa”, soprattutto il colore degli occhi di lei, canta le canzoni di Morrissey e si buca. Lei vuole essere felice, libera, vuole trovare una risposta alla sua giovinezza con il pretesto di una domanda: cosa dovrà accadere?
Non può esserci che un castigo sotto il cui peso si incrociano destini che viaggiano attraverso le stagioni, che si susseguono, ma non fuori, piuttosto dentro la protagonista il cui stato d’animo non è mai sintonizzato sull’estate. Massimo porta la camicia fissata ai polsi, per nascondere i buchi mentre lei pensa: “Tu non mi hai mai guardato, allora sai le cose che non vengono guardate, poi muoiono”. Le cose.
Questa parola le risuona dentro il petto e la ferisce come una lama che taglia in due il cuore, rallentato dalla mancanza di quella passione che muove i giovani che vogliono vivere veramente. Del resto non si riesce a pensare al futuro: “Non programmavano esami da superare, obiettivi da raggiungere, non suonavamo uno strumento, non sapevamo giocare a tennis o non avevamo l’energia e l’arroganza di un corpo in salute”.
E poi, in mezzo a tutta la disperazione connaturata a un gruppo di giovani tossici, c’è l’amore, anche quello per i libri, che la protagonista porta sempre con sé perché un libro con le sue parole in certi frangenti rappresenta una sorta di salvezza dai demoni più profondi che abitano le nostre anime: “Nella sacca tenevo un nuovo romanzo, dovevo leggerlo a Mary perché le era piaciuto il giorno in cui in baracca, le lessi le righe di Buzzati, Un amore.”
Perché se ci credi, l’amore fa muovere le cose. E l’amore è quello che fa pensare alla protagonista che un giorno se ne andrà da quei cieli neri. Così l’amore prende le sembianze di una grande assenza e più lo si cerca, più lo si perde. Forse.
Nel romanzo si ritrovano echi del Pratolini più neorealista. Buzzati e Pratolini come sogni nel degrado e rivolta nella scuola – si legge a riguardo in quarta di copertina – dove il professore che cerca di far crescere questo corpo adolescente vale molto, perché sa dedicarsi al di là dell’offerta formativa.
Tomassini è un’autrice che mette al centro la letteratura, senza mai abbandonarsi a una scrittura consolatoria che nel trattare certe tematiche di disagio potrebbe rivelarsi di facile soluzione. Tomassini pone le proprie parole a servizio di una narrazione colma di inquietudini, scontri e morte.
Così, in mezzo al disfacimento narrato, i protagonisti di Mazzarrona (Miraggi Edizioni, pagg. 180, euro 16) riescono a vedere ancora la luce, quella del sole che illumina le cose, le strade, le loro vite, come un presagio di qualcosa di buono che dovrà per forza, prima o poi, accadere.
Cosa dovrà accadere? È la domanda della voce narrante, che attraverso il ricordo, ritorna pagina dopo pagina a quegli anni vissuti in periferia. La risposta si riassume tutta in una parola: vita.
Perché la vita accade sempre, sino a quando si ha il coraggio di guardarla in faccia attraverso lo scoppio di un sorriso, quello del mondo intorno che fiorisce mostrandosi nella sua struggente bellezza. Un romanzo che guardandoci ci fa vedere l’infinito fino alla fine del mondo.
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