Il nuovo romanzo di Veronica Tomassini è l’elogio della solitudine e del bevitore. Il che poi è uguale. La sua compassione è violenta, è quasi un crimine, la usa senza considerazione, senza decoro. Vodka Siberiana, il titolo: autopubblicato, non perché senza editore ma per una scelta quasi di rottura. Veronica Tomassini torna ai lettori e torna da sé, autodeterminandosi. La leggo, come sempre. Vi invito a farlo, se avete il cuore e lo stomaco. Drammatico, tragico, l’autrice riferisce di abiezione e misericordia, spesso non distingue l’una dall’altra, solo la Luce inquadra e rilegge gli accadimenti. Vagabondi, alcol, promiscuità, una città del Sud. Una sotterranea denuncia che affiora di tanto in tanto, ma lei la rifiuta, non è una lotta di classe la sua, nemmeno quando parla dell’amore tra un vagabondo alcolizzato e una giovane donna borghese. Ed è il perno attorno al quale ruota la poetica di questa scrittrice che ho conosciuto molti anni fa e che ho “lanciato” con Marco Travaglio e Giulio Mozzi. La vidi a Milano. Era timida, introversa, non sono riuscito a farle leggere nemmeno una riga del romanzo d’esordio Sangue di cane (Laurana, 2010) che fu considerato un caso letterario e che sembrò decidere su un nuovo modo di fare letteratura, per intanto non declinandola al femminile. Non è una scrittura femminile, la sua. Ha pubblicato altri romanzi, spesso torna su un epos alcolico e derelitto, racconti di perdizione e di salvezza. Perdizione e salvezza che investono il lettore di una responsabilità, lo inducono al perdono. La lezione morale che traggo dai suoi libri (da Sangue di cane passando per L’altro addio, edito da Marsilio, e sino a quest’ultimo, Vodka Siberiana, in mezzo c’è l’e-book per Fetrinelli, Il polacco Maciej, e Mazzarrona (per Miraggi, candidato al Premio Strega nel 2019) che è una professione di indulgenza. Ho scritto spesso di lei, la considero una delle migliori scrittrici italiane. Gliel’ho detto più di una volta. Vodka Siberiana ha raggiunto una potenza maggiore nel linguaggio, nella tenuta, a tratti violento, a tratti acido, scoppiato e lirico se vogliamo. Fa questa scelta di autopubblicarsi, stanca di dover sottostare a un ruolo marginale. Assurdamente ignorata, mentre esce proprio in questi mesi un saggio sul suo romanzo d’esordio, firmato da Stefania Lucamante, per la University of Toronto Press, “Righetous Anger in Contemporary Italian Literary and Cinematic Narrative” (https://utorontopress.com/us/righteous-anger-in-contemporary-italian-literary-and-cinematic-narratives-3), quindi in America è già un canone. Qui da noi, si preferiscono altre cose. Le voglio bene, lei me ne vuole, ma questo non è importante. Piuttosto leggetela, ne vale la pena, ordinate Vodka Siberiana, dall’autrice. Non ve ne pentirete.
Gian Paolo Serino
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Wladek armeggia con la cinta. Si erge sopra la donna, stesa ai suoi piedi. Oltre le cime degli eucalipti, le nuvole attraversano veloci il cielo lontanissimo. Wladek vuole concludere il suo affare impellente, in un modo o nell’altro. La donna sembra morta. La papera Alfonsina gira nella sua disperata follia, è distonica e sdoppiata. L’austriaco rovina a carponi, le bercia simile a un orso parole incomprensibili, striscia come un verme, si rialza, strofina le ginocchia sul selciato dove Wladek consumerà il suo affare. Alfonsina, Alfonsina.
È il nome della papera. E tu avevi capito piuttosto Paulina.
Wladek sta pisciando. Tu fissi Alfonsina. Il siberiano lascia la sua presa, il tuo piccolo volto, l’austriaco fa un sacco di casino. Il siberiano non ha documenti. È finito dentro. Lo rispediscono nel suo paese. E l’austriaco fa un sacco di casino. Lo vedi procedere come ondeggiando, blatera, i pantaloni larghi, le sue gambe ossute, è un leader. Il peggiore dei pezzenti. Ma la donna si rialza, Alfonsina ritrova il suo padrone, lurido carponi, ride e piange, meschino e ubriaco. La donna si rialza, malamente, Wladek ha mancato il suo bersaglio, vorrebbe costringerla a finire il lavoro, inginocchiarla. Ma è troppo ubriaco per andarle dietro. La donna è una megera, ride, con la sua terribile sonorità, arriva dagli anfratti di tutte le perdizioni. La vedi vendersi in uno squallido motel, un albergo a ore, il suo passato sprofonda nell’elegia disumana di un sistema. Il suo gulag personalissimo si esaurisce in una stanza dalle pareti gialle. Qualcuno la rimprovera, il fiato incendiario, un ventre molle sulla sua schiena. Muoviti. Le ordina il vecchio militare. La megera lo avrebbe evirato il vecchio militare. Obbedisce.
Adesso sei tu e soltanto tu al centro della scena. C’è un giardino, Wladek dà di stomaco, il siberiano tira calci ai cartoni vuoti e canta la canzone popolare. L’austriaco ha un occhio pesto. È uno yeti. Bastardo siberiano, gli urla. E canta anche lui. Ma ci sei tu adesso e sopra di te le nuvole attraversano veloci la stupidità del mondo.
Guardi oltre le cime. Le vedi, le nuvole? Sei soltanto una ragazza.
E ogni cosa smette di dolerti. Non rattristarti. Sei soltanto una ragazza. Ogni cosa è illuminata. È un film, lo vedrai anni dopo, ti piacerà moltissimo. Ogni cosa è illuminata.
Il siberiano ti afferra la vita, non puoi difenderti, tu lo faresti, vuoi difenderti, ma il mondo gira, precipita, velocissimo più delle nuvole.
Senti il suo fiato, non può aspettare. Riconosci un odore, vino, vento, non sai tradurlo. Vuole averti, subito. E non aspetterà.
Chiudi gli occhi. Capisci che in quel tempo tutto sarebbe stato capovolto.
Lasci che faccia quel che gli pare. Lui tiene la sua mano sulla tua bocca.
Zitta, dice. Sussurra. Non sai nemmeno tu.
Il mondo gira velocissimo, come le nuvole sopra la cima degli eucalipti.
(Tratto da Vodka Siberiana, Veronica Tomassini, Settembre 2020)