Un romanzo che percorre una vita per percorrere le esistenze di tutti noi. Come una tela che, scendendo pian piano prima cela la bellezza di un quadro e poi la svela, Vigdis Hjorth centellina gli indizi che portano alla verità della storia, non una storia qualsiasi, ma una storia comune. Partendo dagli ultimi fatti di quella che è a tutti gli effetti una saga familiare, ripercorriamo le intere vicende che hanno portato allo stato delle cose la protagonista nel turbinoso rapporto con la sua famiglia, un rapporto che si conosce malato, ma le cui cause non si palesano se non tra le pagine finali.
Si badi che, ancora, non si è usata la parola capitoli e a buon proposito. Il romanzo è strutturato in maniera che il lettore veda e senta solo quello che la protagonista di Eredità vede e sente. Ci si trova in un flusso di pensieri continuo e ininterrotto in cui la parte di verità viene a galla è continuamente dibattuta tra le colpe dei vari personaggi. Ci si trova esattamente nel cervello di Bergljot per cui sarebbero totalmente superflui segni d’interpunzione che denotino uno scambio di battute, quanto qualsiasi altro segno che trasporti sotto l’ala del razionale quanto, in realtà, è dettato da una mente in continua evoluzione e in continua agitazione emotiva.
Una scrittura all’insegna della coerenza, anche se non di quella narrativa. Se, come abbiamo citato, l’impostazione grafica e visiva di Eredità accompagna in maniera maestrale quanto viene narrato, sicuramente ciò non accade, appunto, sotto il punto di vista narrativo. E questo è il più grande pregio del romanzo. Il romanzo narra di alcune vicende familiari a dir poco turbolente e tra le quali si trova la contesa di due case al mare, eredità che si sarebbe dovuta spartire tra quattro fratelli, ma che, di fatto, verrà assegnata solo alle due sorelle più, per così dire, ruffiane. Se il lettore cercasse di capire come sono andate realmente le cose e ci riuscisse senza troppi problemi, allora, probabilmente, non si tratterebbe di una storia romanzabile. Ma se il lettore cercasse di capire come la protagonista possa vivere queste vicende e se la protagonista fosse talmente brava a farsi leggere, da cambiare più volte il punto di vista in base agli accadimenti e al prosieguo delle discussioni, se la storia non fosse lineare perché affastellata di colpi di scena, allora ci troveremmo di fronte a un capolavoro. Ed è proprio qui che ci troviamo.
Bergljot è una critica letteraria e teatrale norvegese (sì, in Scandinavia con questo tipo di lavori riesci a costruirti un futuro), sposata e con tre figli, ormai tutti grandi. Ha chiuso ogni rapporto con la sua famiglia d’origine molti anni fa. Ciò non toglie che i suoi figli possano frequentare la famiglia della protagonista e in special modo le case di Bråteveien, case che i genitori di Bergljot hanno deciso di lasciare in eredità a due sorelle, quelle che hanno ritenuto più presenti nella loro vita. Vengono tagliati fuori, quindi, la protagonista e il fratello maggiore Bård, che verranno risarciti con una valutazione catastale che, tuttavia, riterranno ingenerosa. Fin qui può sembrare un libro come tanti, una sorta di Viceré alla scandinava, che si apre con la lettura di un testamento che, inevitabilmente, lascia qualcuno scontento. Quello che ancora non si conosce e che Vigdis Hjorth è bravissima a svelare passo passo sono i motivi di queste scelte: i veri motivi della fuga dalla famiglia dei due fratelli, i motivi per i quali non sono contemplati nel lascito testamentario e i motivi per i quali ci troviamo in una famiglia spaccata. Insomma, tutto viene disvelato, ma con un realismo tale da essere storia vera.
Le emozioni non si mettono in fila, i sentimenti non possono essere razionalizzati da una scrittura ordinata e ponderata, ma esplodono, in un miscuglio di lettere che dà forma a frasi, a prima impressione, senza senso. Così è Eredità, così la scrittura magistrale di Vigdis Hjorth che conferma, ancora una volta, come la cura per l’arte e la letteratura che certe politiche scandinave stanno portando avanti, inizi a dare i propri frutti e che dimostra di come, una narrativa capitalista e di consumo, in Italia, altro non possa dar vita a libercoli di narrativa.
Lorenzo Bissolotti