Metafisica 2, Ecceitas e Deleuze o dell’essere chiunque chiunque: sono questi i titoli delle tre parti di cui si compone questo estratto (o estratti) dal “Faldone zero-cinquantanove, novantotto-novantanove (1992-2014)”, di Vincenzo Ostuni, uscito per Tic edizioni con il titolo del faldone numero otto: Deleuze o dell’essere chiunque chiunque (2019, collana Chapbooks, pp. 54, euro 10). Se il Faldone, a cui Ostuni si dedica dal 1995, è “opera-vita”, come l’ha definito Cortellessa, e dà liricamente conto del farsi e del rappresentarsi di un’esistenza, questi estratti restituiscono l’idea del percorso che il poeta sta compiendo: dall’uno monologante al molteplice, e dal molteplice alla sua proliferazione:
(«viceversa:
il quadro delle connessioni si infittisce in rapidi tratti, seppellisce l’intero campo in una grandine di nodi, un’invasione di connubi / irrintracciabili – / finché lo spazio logico si riempie di ogni detrito, completamente: perché non c’è nessuna / realtà se ogni evento ha troppi effetti / reali; / nessuna verità se fra i fenomeni non si danno interstizi né punti d’appoggio; / non c’è causa se la sua frenesia insegue un’oscena imitazione / del caso»).
Se dunque il Faldone è uno spazio di riflessione o uno spazio di coscienza dove, a livello formale, le parentesi permettono la dilatazione del pensiero, il suo accadere, le virgolette caporali danno il via al dialogo aprendo la porta sull’esterno e sull’esperienza, conoscitiva ed espressiva, pur nella sua impossibilità di partenza:
e questo paralizzato ignorare è la nostra prima posizione naturale. […]
(«è il nostro modo di fare sfacendo, di esercitare il nostro potere impedendo», concludi, / «il fingere celiando o ghignando di non fare / quel che veramente non stiamo facendo»).
Quasi una formula del melvilliano I would prefer not to, analizzato da Deleuze in tandem con Giorgio Agamben (Quodlibet, 1993), che fa crescere a dismisura la zona di indeterminazione o di indiscernibilità e fa scattare il linguaggio per mostrare “il vuoto, l’imperfezione delle leggi, la mediocrità delle creature particolari, il mondo come mascherata”, dice Deleuze a proposito dei personaggi “originali” e senza particolarità inseparabili dal mondo, su cui esercitano pienamente il loro effetto (Bartleby, in questo caso).
(«Abbiamo tutti quanti i nostri limiti», continua: «il mio è non avere un interruttore generale/particolare; / per questo m’interrogo sulla condizione / del singolo come deviazione dalla condizione / della specie, per questo credo che l’essere percepito differisca da altre forme di relazione / per una sottrazione di generalità, per un toglimento e non per un’aggiunta, / per un grado e non per la natura – non per il tempo, non per la distanza»).
Ecco, Ostuni forza gli ingranaggi della scrittura, ne denuncia il monologo e lo torce a favore del dialogo. Aumenta il caos, in tutte le possibili direzioni, e catalogandolo, assumendolo allo stesso tempo su di sé e fuori di sé lo dirime, lo incanala, facendosi “laboratorio comune”, dice Luigi Severi (su Linguistica e Letteratura): “il soggetto si squaderna sulla pagina come uno spazio plurale”. Nonostante la sua provvisorietà.
(«Il tuo essere qui non è davvero tuo», fa lei: «sta in quella pellicola che brilla e trema appena, / che seguendolo ritaglia, elimina il corpo dall’aria»).
In questo continuo interrogarsi, sondare il mondo e le sue possibilità, le sue strutture, attraverso strumenti concettuali, filosofici, mettendoli alla prova, una prova oltretutto poetica, non si può fare a meno di osservare l’uomo in filigrana, il poeta e il suo mistero, il bordo di stelle su cui si affaccia ed è: inerme e grandioso, stupefacente nel suo essere tanto piccolo da testimoniarsi di fronte a se stesso, prima di tutto:
(«Sono seduto, sta’ tranquillo, non cado», così ti scrivo, «ho qui la mia sedia, il tavolo per i gomiti e gli avambracci, ho qui ancora la cucina a gas, / funziona, ho le mura e il frigorifero, / ho quel che mi serve e quel che ancora no, o non più; i contatori delle possibilità / sono sotto il minimo, / ho accanto il gatto con un graffio in fronte, ho qui il telefono e le sue certezze e permutazioni. // Sta’ tranquillo», ti ripeto, / «ho mostrato tutto, non l’ho detto, / secondo la migliore delle tradizioni, le piante dei piedi poggiano intere, salde sulle piastrelle carta da zucchero / – poi quando comincio mi diverto, lo so; /a Roma è nevicato tutto il giorno, dovrei scriverti al mattino o mai, meglio mai; / avrei bisogno di uno schermo il cui passaggio da spento ad acceso / fosse meno un fatto compiuto»).
È autenticamente consapevole, Vincenzo Ostuni, e, proprio per questo, ancor più disarmato, nudo re del suo universo complesso, toccato dall’accadere degli eventi che osserva, che vive e che cataloga, malgrado la guerra che sa però essere “la meccanica celeste della luce”. Ostuni cita in apertura di questo ultimo componimento, il 18 della sezione Deleuze o dell’essere chiunque chiunque, un passo ripreso da Millepiani, di Deleuze e Guattari: “non possono fare la guerra se non a condizione di creare nello stesso tempo qualcosa d’altro”. E nel 6:
(«per fortuna il prestigio del negativo discende, lo abbiamo scoperto, / dalla svergognata cupidigia delle domande dirette, / una nozione è sufficientemente vicina ad un’altra se la può amare, se la vita nascosta negli organi ne stilla / come fornita dal principio degli anni / di una forma che solo si contempla / con il generarla, con il generare»).
Creare, generare… lo strumento intellettuale non esaurisce, o meglio, forse è proprio il motore, sempre a pieno regime, della generazione; lo è la parola, a patto di essere incarnata, continuamente rimodulata e interrogata, nomade e digressiva, come in questo confronto deleuziano. Solo così lo stadio liminare tra presenza ed elaborazione viene mantenuto nel divenire di vita e faldoni della stessa.
(«qualche cosa», concludi, «è nel nero del nero che sbatte, che stride, / che strilla, / qualche cosa poi ride nel tratto di una singola, lunga favilla»).
Sì, la poesia di Ostuni è ostica, a prima seconda e terza lettura, ma permette quello scarto che testimonia e necessariamente affascina, mette un filtro e lo polverizza.
(«Mi rende nervoso non stabilire le forme», ti dico l’unica volta – ci tocca spesso restarti a sentire: è questa la differenza dei morti; / «mi consuma / che le vicende dei corpi, dei mondi si allaccino o sleghino come tele o catene arronzate, si perdano tutte in nessuna, ciascuna / in qualcosa di meno»).
(«Ti sbagli», mi fai; ti pareva. «La nostra vita non è identica a niente; ma la nostra vita migliore è una vita generica, antica, / che a tutte le altre si univoca, e termina / nell’essere ovunque di tutti, di qualunque pensiero, / nell’esser chiunque chiunque»).