Una volta, che anno era? ho incontrato Cesare Garboli a Lucca.
Eravamo lì per un convegno sul turismo, giuro!, c’era anche Vincenzo Consolo che raccontò la storia di Joseph Whitaker (l’archeologo erede della famiglia che si era arricchita con il marsala) che comprò l’isola di Mozia e intendeva esaminare coloro che desideravano visitare l’isola, una specie di antiturismo dissuasivo. Se non sai niente di Tucidide perché vuoi visitare il museo o gli scavi archeologici di Mothia?
• Ridere, ridere con Garboli e Consolo. In quella bella occasione fatti gli inutili interventi a un inutile pubblico di contesse, pubblicitari e altri anomali animali politici senza nome, ci siamo Garboli, io e Silvio Cumpeta (che allora era presidente della provincia di Gorizia) appartati sulla grandezza di Pascoli e su infinite storie e storiacce e historiette d’importanza capitale.
La capacità seduttiva di Garboli era prossima al miracolo, a sentirlo ti pareva di conoscere a menadito faccende di cui non avevi mai sentito parlare e ti sembravano nuove questioni che avevi frequentato con costante coerenza.
Lo guardavo rapito, avevo più di trent’anni non ero un ragazzino, (come diceva una mia amica Essì ch’eri già stato a Parigi!) a un certo punto, ricordo ancora il tono, mi disse, parlando di una terzina dantesca, in un inciso: Tu hai gli occhi color delle castagne.
• Indimenticabile quel giorno: ricordo che il “principio turistico” di Garboli molto assomigliava a questo atlante che Paolo evoca. Non per niente, per come la vedo io, Paolo Gervasi ha scritto un libro, il più bello che abbia letto su Garboli, “Vita contro letteratura. Cesare Garboli: un’idea della critica”, assieme al discorso del geniale Carlo Ginzburg letto a Empoli l’11 dicembre 2005 per ricordare Cesare.
• Bello un atlante così!
Paolo Gervasi scrive: «La vaporosa malinconia lasciata dalla partenza di un ospite gradito. La commozione nel veder trionfare chi parte svantaggiato. La nostalgia per un luogo in cui non si è mai stati. Ognuno e ognuna di noi probabilmente ha provato almeno una volta uno di questi stati d’animo. E magari ha fatto fatica a descriverli e a nominarli, ha pensato che non fossero condivisibili, ha tentato di scuotersi di dosso queste strane sensazioni. Non sapendo che invece queste emozioni e s i s t o n o: sono culturalmente riconosciute, hanno dei nomi, una storia e una geografia. La tribù baining che vive sulle montagne della Papua Nuova Guinea chiama awumbuk la malinconia lasciata dalla partenza di un amico che si è ospitato, e dispone ciotole d’acqua negli angoli della casa per assorbire la foschia che l’ospite lascia dietro di sé. L’empatia verso un outsider, l’eccitazione per la vittoria di chi è destinato alla sconfitta, in Giappone si chiama ijirashi. Il finlandese definisce kaukokaipuu il desiderio di essere in un luogo lontano, diverso da quello in cui siamo e in cui forse non saremo mai.»