«Solo che questo mondo bisognerebbe guardarlo con i miei occhi. Io darò pure un senso alla vita degli altri, ma la mia vita che senso ha?»
Vittorio Macioce, caporedattore de Il Giornale, esordisce nella narrativa con Dice Angelica, curioso e complesso oggetto testuale. Fa anche strano dirlo un esordio, perché la forza e la lingua che lo sostengono sono quelle di un narratore navigato, il risultato di un lungo e appassionato commercio con le parole e le storie. Quindi, in qualche modo, un esordio che è già una conferma.
La storia che Macioce racconta non ci è nuova, è quella che si snoda tra L’Orlando innamorato del Boiardo e L’Orlando furioso di Ariosto. Dunque le avventure (e le disavventure) dei paladini di Francia sullo sfondo del conflitto tra saraceni e cristiani. La racconta però da una prospettiva nuova, come il titolo suggerisce: la prospettiva di Angelica. Per la prima volta ne ascoltiamo la voce, assistiamo alle cose così come lei le ha viste e vissute.
Del magma quasi ingovernabile che è la materia narrativa dei due poemi Angelica è il motore, è l’agente del caos: dove passa lei, crea scompiglio. Tutti la rincorrono, tutti la vogliono. Ma lei, invece, cosa vuole? Da questa domanda nasce Dice Angelica. La risposta è semplice e insieme è un abisso: Angelica vuole trovare il suo posto. È venuta fino in Occidente per cercarlo, e tutto quel che ne ha raccolto sono altri dubbi, delusioni, fughe. Non si rassegna all’idea di essere oggetto di un desiderio senza scopo, così come non si rassegna all’idea che la bellezza – la sua bellezza – possa essere una colpa. Reclama per sé il diritto di essere com’è e nient’altro: buona o cattiva, cinica o sognatrice, innamorata o disamorata. Questo diritto le viene negato, perché pare che la storia in cui si ritrova voglia per lei un destino diverso. Essere un escamotage narrativo, importante, certo, ma nulla di più. E allora Angelica scappa, e dietro di lei tutti all’inseguimento. Un piccolo vantaggio ce l’ha, possiede un anello con due poteri particolari: le permette di scomparire – letteralmente svanire – e le permette di discernere ciò che è reale da ciò che è incantesimo. Per dirla in altre parole, su di lei la magia non ha effetto.
Seguendone le peripezie, ritroviamo tutta la storia così come l’abbiamo sempre conosciuta. I suoi passaggi cruciali, almeno. La venuta di Angelica, il torneo che la vede contesa – e in cui suo fratello Argalìa muore per mano di Ferraù -, la fuga, l’amore non ricambiato per Rinaldo e quello invece ricambiato per Medoro, che sarà la causa della follia di Orlando e, di conseguenza, del celebre viaggio di Astolfo sulla luna per recuperarne il senno perduto. Come detto, a grandi linee, la storia c’è tutta. Anzi, a dir la verità si spinge anche un pochino più in là, ma di questo non è il caso di dar conto adesso.
Sono almeno tre, a mio avviso, gli elementi di originalità nell’opera di Macioce. Il primo è il più ovvio, il più evidente: Angelica, finalmente, parla. Il secondo è parente del primo: non solo Angelica parla, Angelica sa di essere dentro una storia. Sapersi un personaggio le consente di vedere tutto ciò che agli altri è dato e invece a lei è proibito. Da questa consapevolezza nasce la ricerca. È un po’ come se il suo anello la rendesse immune anche a quell’incantesimo che è il narrare. Il terzo elemento ha a che fare con la struttura dell’opera. Fino ad ora ho parlato solo della voce di Angelica, ma in realtà le voci sono due. Un altro narratore prende la parola, allarga il campo del racconto, lo completa, lo fa dialogare con il nostro tempo. Dice Angelica è dunque l’incontro tra due voci, quella della principessa del Catai e quella di un misterioso cantastorie. Parlano a capitoli alternati ma talvolta si incrociano, si sfiorano appena, poi tornano ognuno per la sua strada.
E la voce senza nome a chi appartiene? Verso la fine del libro c’è un piccolo cortocircuito tra realtà e finzione, è tanto piccolo che può quasi passare inosservato, giusto una riga di testo. Si tratta un elenco di città immaginarie: Atlantide, Avalon, Anharra, Aurocastro, Alvito. Curiosamente, Alvito è anche il luogo in cui è nato Vittorio Macioce, un piccolo comune nel cuore della Ciociaria, e allora chissà che non sia proprio lui a parlare. Anzi non proprio lui, un suo doppio scappato dalla realtà e entrato tra le pagine di un libro. Un’ipotesi certamente strampalata, ma d’altronde quello in cui Macioce fa viaggiare i lettori non è semplicemente lo spazio di una storia, è lo spazio di tutte le storie. È il territorio dell’invenzione, dell’incanto, del sogno. In un luogo così tutto può accadere, anche l’assurdo diventa probabile.
Dice Angelica è un libro splendido, un gioiello di sapienza narrativa e linguistica. Azzardo anche l’idea che sia un libro in cui una volta usciti si può entrare di nuovo, da dove si preferisce, da un capitolo a caso, e da lì riprendere a viaggiare, mantenendo intatti lo stupore e la meraviglia della prima volta.
Edoardo Zambelli
Vittorio Macioce, Dice Angelica, Salani, 2021, 304 pagine, 18 euro