L’autore dell’Angelo di Monaco si racconta: una vita in giallo fatta di storie e libri, tra Bologna e Manchester (passando per Torino). Fabiano Massimi, impegnato bibliotecario e riconosciuto autore di gialli, dopo una laurea in filosofia tra Bologna e Manchester ha studiato al Master in Tecniche della Narrazione della Scuola Holden di Torino. Conseguito il Master è stato a lungo bibliotecario alla Holden. Tra quelle mura, da studente, spesso partecipavo ai magnifici reading serali che lui organizzava. Fabiano da vero agitatore culturale è diventato nel tempo un riconosciuto artigiano della parola scritta: il suo primo romanzo “L’angelo di Monaco” è stato l’esordio italiano più venduto alla fiera del libro di Londra 2019. Quando non scrive è bibliotecario alla Biblioteca Delfini di Modena. Questa intervista nasce dallo stimolo di vecchi ricordi legati al periodo trascorso assieme proprio al mio arrivo alla Scuola Holden (settembre 2003), per poi essere alimentata dalle scoperte fatte negli anni sul suo prestigio autoriale quando, lavorando come libraio, ho potuto notare che i suoi lettori in libreria aumentavano di giorno in giorno. Il suo libro più recente è: “Vivi nascosto. Un’indagine del Club Montecristo”.
Mario Schiavone
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Sei un riconosciuto bibliotecario, e anche un romanziere di successo: sembra che le cose siano in antitesi. Come fai a scrivere per tantissimi lettori, senza dimenticare la lezione dei testi classici su cui ti sei formato?
Insegno anche Scrittura nel programma universitario della Scuola Holden, e forse è proprio questo l’anello che unisce gli altri due mestieri (a volerli chiamare così): uno sguardo ampio, potremmo dire strabico, che tiene insieme la tradizione e la contemporaneità, i classici e i moderni, il teorico e il pratico, i libri che ci hanno raccontato le storie che conosciamo e i lettori cui vogliamo trasmettere le nostre ora. Di base, come scrisse Pietro Citati mille anni fa recensendo Seta di Alessandro Baricco, quando scrivi devi dimenticarti che la storia della letteratura (o la biblioteca in cui lavori, o le librerie che frequenti ossessivamente, immergendoti ogni giorno fra migliaia e migliaia di romanzi che non hai ancora letto), insomma, quando scrivi devi dimenticarti che tutto quello esiste. Ci siete solo tu, la tua storia e i lettori che hai in mente. Tradizione, influenze e teorie te le porti già dentro, e se devono venir fuori, in qualche modo verranno fuori.
I tuoi romanzi sono fondati su una ricca base di documentazione storica; ma anche di sopralluoghi fisici, che ti sono utili a capire meglio il contesto in cui ambienti le tue storie. Quando scrivi un nuovo libro hai un metodo preciso o di libro in libro rimetti in discussione il modo di pensare e scrivere storie?
Ho il mio modo di pensare, il mio modo di ricercare, il mio modo di progettare, come tutti, ma poi la vita ti guarda, ti sorride divertita e ti assesta qualche schiaffo, tanto per ricordarti che il controllo non esiste. Allora metti tutto da parte e ricominci: questa storia cosa vuole? Perché non si lascia raccontare come le altre? Se esiste un perdono l’ho scritto due volte, perché la prima volta era il libro che avevo in testa, ma a rileggerlo mancavano cose, o meglio, c’erano cose che voleva essere più importanti, come la Bambina del Sale. Serviva anche un punto di vista diverso, una voce che dicesse “Io”, e così è nata Petra, che di tutta la vicenda di Nicholas Winton, Doreen Warriner e Trevor Chadwick è l’unica testimone integrale. E il libro è cambiato, in meglio. Quindi: io non rimetterei mai in discussione la mia poetica (per usare un termine desueto che funziona bene), ma le storie che raccolgo la rimettono in discussione ogni volta, e la fanno crescere.
C’è un libro, tra i più grandi classici di sempre, che avresti voluto scrivere tu? Se sì, ti andrebbe di dirci quale e perché proprio quel libro?
Uno solo? Uno solo è Il nome della rosa, il romanzo che a quattordici anni mi ha cambiato letteralmente (e letterariamente) la vita. Ma ne ho parlato così tanto, già. Il romanzo perfetto, alto e basso insieme, di genere e serio, divertente e profondo… Facciamo che ne nomino un altro dalla mia Top Ten: Il senso di una fine di Julian Barnes. Un uomo giunto all’ultima fase della sua vita si guarda indietro soddisfatto: non ha avuto un’esistenza straordinaria, ma è la sua, e ne è contento. Poi un giorno riceve una lettera, la apre, la legge, e tutto il mondo gli crolla intorno. La sua storia, quella che si è sempre raccontato tagliando e cucendo ad arte episodi e spiegazioni, in realtà non corrisponde a ciò che è stato. Lui, di se stesso, non ha capito quasi nulla. E ora deve ricominciare da capo. Un grande romanzo che si legge in una sera (due, se siete stanchi) e resta a lungo. A ben vedere contiene anche diversi temi di Se esiste un perdono, a cominciare dal perdono, dal tradimento, dal passato che non smette di dialogare con il presente e nasconde il vero senso di ciò che siamo.
Quanto tempo della tua vita da scrittore dedichi al rapporto con i tuoi lettori?
Tutto quello che serve. Sui social, via mail (mi scrivono a fabiano@fabianomassimi.com, rispondo a tutti, in tutte le lingue che conosco), di persona nelle presentazioni… Si scrive da soli, ma per costruire una comunità. Il rapporto con chi ti legge è magico – telepatia, la chiama King, ma io potrei correggere così: telesimpatia.
Ti andrebbe di anticiparci qualcosa sul libro a cui stai lavorando in questo periodo?
Sono due, entrambi storici. Il primo è parte della Sauer Series: dopo aver svelato il mistero della nipote di Hitler ne L’angelo di Monaco e aver scoperto la verità sull’incendio del Reichstag ne I demoni di Berlino, l’ex commissario Sauer ha diversi conti da regolare con i suoi nemici, e si trova a farlo in uno dei luoghi più pericolosi del mondo. Il secondo è uno stand-alone come Se esiste un perdono, che affronta una storia vera mai raccontata prima ma ambientata a inizio Novecento e non più in area nazista. Una grande vicenda di amore e guerra che covo da oltre vent’anni. Forse è giunto il momento di liberarla mettendola in un libro.