Ogni volta che esce un libro nuovo di Vivian Lamarque, una schiera ormai affezionata di lettori e lettrici sa che la loro attesa di anni, comunque passati a riprenderla in mano e a rileggerla frequentemente, sarà soddisfatta. Così è accaduto anche con L’amore da vecchia, pubblicata ne “Lo Specchio” Mondadori, a novembre del 2022. C’è poco da fare: qualsiasi lettura si stia affrontando in un dato periodo, quando arriva un libro della Lamarque, la si sospende per una regressione nell’infanzia della poesia. Come una bambina persa nel bosco, timida, lunare, con il corpo pieno di cicatrici di cui poi intuiamo la causa, L’amore da vecchia bussa educatamente alla porta della nostra esistenza adulta per ritornarci nel rimosso della realtà, che solo uno sguardo come il suo riesce a cogliere nello splendore (e orrore) infantile. I suoi versi calcano, con cantilene dal suono semplice ma dalla struttura estremamente complessa, la grammatica della fiaba e pare di entrare in un’animazione di Miyazaki sceneggiata da Lynch. Pagina dopo pagina, sentiamo delle filastrocche nel bel mezzo di un’esecuzione sommaria, per coprire almeno un poco, con gli strumenti che il dizionario offre, il rumore del pianto con ninna nanne e canzonette.
I traumi della Lamarque non sono ancora disinnescati, solo che lei, ormai, può permettersi di giocarci, come una bambina sopravvissuta a una guerra che gira tra le macerie e maneggia granate e fucili ancora attivi che non la possono più uccidere. Questo è l’insegnamento più grande, se ce ne fosse uno, di questo libro: con il dolore bisogna arrivare a giocare; con l’abbandono: anche – bisogna cercare di fare rimare il “qua” con “felicità” e pure la morte, in un testo bellissimo che è anche una dichiarazione d’amore verso Gozzano, diventa: “la cosa che finisce con ‘orte’”.
L’amore è una questione di sguardo attivo, di postura vitale per Vivian Lamarque, e questo libro ne è inondato: verso poeti, film, verso sconosciuti in treno, vasi di fiori, animali, e sopra tutti e tutte: i nipoti (“anche nell’aldilà me lo porterò / il mare con le sedie del Lido con su seduti voi e anche / tutto il treno regionale mi porterò che il sabato ci recapitava / la mamma mentre la campanella suonava stonata come / una campana e lei scendeva come una bambina-mamma / a braccia spalancate) e la figlia, a cui dedica una poesia che ogni figlio, ogni figlia, vorrebbe vedersi dedicata: “Myriam, mia bambina, mia rima / mia infinita mattina. […] Nel percorso dal giardino alla stanza / il cielo giocava col tuo bel nome nell’aria / ti rapiva in fondo la emme / ti metteva una enne che era mia…”. Non riguardano, questo libro, le discussioni teoriche sull’Io autoriale e quanto di biografico ci sia nella produzione di un poeta. Vivian Lamarque è chiara: Io sono autobiografica si intitola una sezione centrale, come biografiche sono anche le altre sezioni del libro dove affronta la sua storia personale, che pare intrecciarsi casualmente con la Storia, con pochi risultati ma sorprendenti, inattesi: “Certi giorni la poesia / come mascherina / mi si posa sul viso – / m’indossa”. Il quotidiano suona nei suoi versi – suonano i fiori, i vicini di casa; suona la memoria insita negli album di fotografie, i cani, le pentole e i fuochi e da lettori siamo chiamati ad ascoltare questa orchestra composta attorno a un carillon, a intonare un motivo che ci risulta famigliare anche se crediamo riguardi più la dimensione del sogno o dell’infanzia, che spesso sono sovrapponibili.
Ogni volta che ho appoggiato il libro sul tavolo avevo una sensazione strana addosso, come di essere appena sceso da un’altalena in un parco vuoto, senza nessuno attorno. Adesso il libro è sul comodino. Quando la notte sarà troppo buia, so che L’amore da vecchia mi riporterà su quell’altalena, a giocare con le parole e non avere più paura dell’oscurità. Ed è anche questa, l’ennesima magia del libro di Vivian Lamarque.