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Voci dal piano di sotto. Intervista a Gianfranco Mammi

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Per Le Tre Domande del Libraio su Satisfiction questa settimana incontriamo  Gianfranco Mammi, in libreria dal 5 giugno con ” Voci dal piano di sotto”, edito da Quodlibet nella Collana Compagnia Extra curata da Ermanno Cavazzoni.
Gianfranco Mammi è nato in Venezuela ma ha quasi sempre vissuto a Modena. Ha pubblicato vari libri (tra cui Uomini senza Mercedes, Vita di “Ridolini” e Ugo il Duro vincitore del Premio Luigi Malerba 2019) e i suoi racconti sono apparsi su diverse riviste tra cui Linus, Tèchne, Panta, L’accalappiacani, Griselda e Almanacco Quodlibet. Per Nutrimenti sono stati pubblicati i romanzi “Nostra Signora dei Sullivan nel 2021 e “Pluriball” nel 2023.


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Gianfranco ci siamo lasciati un anno e mezzo fa in libreria ai Diari per la presentazione dei due libri editi da Nutrimenti.  Adesso arriva questa raccolta di racconti molto interessante. Ci vuoi spiegare come è nata l’idea e poi se ci vuoi portare dentro l’officina di lavorazione e raccontare anche come sei arrivato a Quodlibet?


Mi ha sempre attirato parecchio l’idea di dare vita a una raccolta di racconti: non per niente il primo titolo che ho pubblicato, Uomini senza Mercedes (Fernandel, 2002), era costituito da venticinque brani autonomi con lo stesso protagonista, per cui c’è stato chi l’ha definito un “romanzo per episodi”. Lavorare sulla forma racconto per me è particolarmente bello e divertente. Penso che questo sia dovuto più che altro alla mia bizzarra maniera di affrontare la scrittura: spesso parto da una semplice frase che mi stimola, e poi improvviso quasi riga per riga, prendendomi tutto il tempo che ci vuole e saltando da una narrazione all’altra senza farmi problemi. In effetti, i brani di Uomini senza Mercedes li ho scritti cinque o sei alla volta, andando avanti e indietro dall’uno all’altro anche a distanza di pochi secondi, facendoli crescere contemporaneamente come con dei mattoncini Lego. Passando ai romanzi lunghi (Nostra Signora dei Sullivan e Pluriball, entrambi attorno alle 350 pagine) ho mantenuto la tecnica dell’improvvisazione totale, ma non era ovviamente possibile saltare dall’uno all’altro, anche perché il secondo non era nemmeno in gestazione nei sei anni che ho impiegato a scrivere il primo: allora mi sono “sfogato” puntando su una serie di racconti brevi o brevissimi, nella tradizione di quelli pubblicati su L’Accalappiacani (cessato nel 2010), sull’Almanacco Quodlibet (quattro numeri dal 2016 al 2019) e su Nuova Tèchne, con cui continuo a collaborare ancora adesso. Non si può parlare di semplici “diversivi”, perché l’impegno e il coinvolgimento erano comunque notevoli: a me piace molto limare a fondo i testi una volta terminata la prima stesura, penso che un brano sia migliorabile praticamente all’infinito – poi è ovvio che a un certo punto ci si ferma e si passa ad altro. C’è stata anche l’occasione di partecipare ad alcune antologie a tema (l’ultima, Buon Natale perfidia, lanciata da Exòrma Edizioni, è uscita a dicembre scorso). Insomma, la forma racconto non l’ho mai abbandonata, anche perché è sempre una grandissima soddisfazione vedere come da un’idea minuscola, veramente in nuce, possa scaturire una narrazione che sta in piedi, ha una sua ragion d’essere, e anche un finale convincente. Dato il mio modo di procedere, il finale dei miei racconti è spesso molto breve – tre o quattro righe al massimo – e quindi anche soltanto riuscire a “chiudere” una storia in maniera adeguata è particolarmente appagante. A questo proposito ripeto quello che ho sempre affermato: io scrivo per puro divertimento, sto semplicemente a vedere quello che succede mentre batto sulla tastiera del pc. Dunque nell’arco di questi ultimi venticinque anni penso di avere scritto tra gli ottanta e i cento racconti, pubblicati qua e là: varie volte ho provato a creare una specie di antologia personale, scegliendo quelli che mi parevano più riusciti, ma un paio di tentativi non hanno avuto l’approvazione delle case editrici a cui li avevo proposti. Allora l’anno scorso mi sono impegnato più a fondo, ho eliminato alcuni racconti che non mi convincevano al 110 per cento, ho aggiunto sei o sette pezzi completamente nuovi, ho strutturato la raccolta in cinque sezioni abbastanza congruenti e ho riproposto l’idea a Ermanno Cavazzoni, direttore della collana Compagnia Extra di Quodlibet: questa volta è andato tutto liscio, in modo persino anormale: nel giro di sette giorni l’accordo era concluso. Con Ermanno ho una frequentazione che dura da almeno vent’anni, sia per via del comune amico Ugo Cornia, modenese come me, sia per le collaborazioni all’Almanacco Quodlibet: e poi da tanti anni ci si ritrova ogni tre o quattro mesi a discutere e a cenare nella casa bolognese di Ermanno, proprio sotto quella delle Due Torri che si teme possa crollare da un momento all’altro. Ogni volta siamo trenta-quaranta persone e molto tempo fa sono stato incaricato di stendere il verbale di queste riunioni per tenere traccia dei nostri vaneggiamenti; ormai siamo arrivati a una trentina di referti abbastanza lunghi e particolareggiati – e anche da questa pratica di carattere semiburocratico ho imparato molto. Comunque la nostra lunga amicizia e collaborazione non ha impedito a Ermanno di bocciare (con ragione) tre o quattro lavori che gli avevo sottoposto per Compagnia Extra: quindi il fatto che quest’ultima proposta sia stata accettata in modo così veloce e convinto mi ha reso davvero molto felice.

Entrando nel dettaglio del libro e delle storie raccontate, vogliamo spiegare,ai nostri lettori forti di Satisfiction, i personaggi e le vicende e i luoghi che animano i trentuno racconti di  “Voci del piano di sotto”?


Ho come l’impressione che i personaggi di una narrazione – e in certa misura anche le vicende e i luoghi – non sia possibile “spiegarli” più di tanto: sarebbe come voler spiegare una persona in carne e ossa. A maggior ragione se, come nel mio caso, i personaggi nascono quasi da soli, si direbbe per partenogenesi. Una cosa ragionevole che si può fare è vedere se ci sia qualche elemento che possa accomunare le tante figure che vengono a galla come protagonisti o come semplici spalle: da questo punto di vista, penso che il tratto comune che più salta agli occhi sia il carattere poco socievole della maggior parte di queste figure. Non si tratta di persone esplicitamente borderline, però c’è come un filo di moderata insania, una certa tignosa cocciutaggine che li inchioda a una fissazione – perlopiù innocua o mal che vada un po’ fastidiosa per gli altri – che li costringe ad agire in modo incongruo. Non si tratta di una scelta cosciente da parte mia; si vede che questo tipo di personalità mi offre maggiori spunti di narrazione e di divertimento. Un altro aspetto che si può sottolineare: molti dei miei protagonisti sono abbastanza incolti e illetterati, anche se non manca – per esempio – un docente universitario. In trentuno storie i personaggi principali e secondari sono tantissimi: si passa dall’impiegato completamente  ossessionato dalle splendide mani di una collega (di cui non apprezza tutto il resto) al sorvegliante di sala che si mette nei guai perché ama inciampare nelle turiste straniere che visitano il museo in cui lavora; c’è poi il vedovo che si esalta collezionando i bollini dei vari supermercati della città, e c’è il sessantenne ammogliato che è convinto che la sua testa si stia fisicamente allargando per colpa del rumore delle lavatrici che i condòmini fanno funzionare di notte per risparmiare sulle bollette, eccetera. I luoghi in cui si agitano questi signori (ma anche signore e signorine) sono in genere città italiane non meglio specificate – a parte un racconto ambientato in Svizzera, un altro che parte da Torino per concludersi nell’Atlantico e un terzo in cui Garibaldi si muove solitario su e giù per una campagna collinare che può far pensare alla Toscana. Nella stragrande maggioranza dei casi i personaggi principali e secondari vengono nominati solo per cognome (Puviani, Scaltriti, Pulga, Zappavigna, Macchioni, Gnoli, Guastaferro, Boccafogli, Gibertoni…); in quattro o cinque racconti i personaggi sono anonimi, in pochi altri hanno nome e cognome (Lusetti Antonio Carlo, Pino Anderlini, Valentina Bussolari…). Negli ultimi due brani, che compongono la sezione intitolata Due visioni della città di M*, la protagonista assoluta è appunto una piccola cittadina italiana di cui vengono illustrate alcune caratteristiche fisiche e morali.

Ermanno  Cavazzoni nella nota al testo consiglia di leggere un racconto per sera, in modo da prolungare per un mese il piacere, e poi aggiunge che si tratta di storie sempre storte e a sorpresa, in una lingua campagnola, direbbe Gianni Celati per lodarla, dove i personaggi si presentano in genere con cognomi impoetici e felicemente stonati. Storie storte e surreali. Vogliamo soffermarci, Gianfranco, proprio sulla vena di follia, che attraversa tutti i racconti, e la necessità in letteratura di una certa “leggerezza” ?


Secondo me le storie mi vengono fuori “storte” soprattutto a causa del procedimento che da sempre seguo per scrivere: non parto mai da una trama o uno schema anche minimo, né da una lista di personaggi, bensì da un’idea di base molte volte assai scarna e poco definita, che però ha il pregio di invogliarmi a buttare giù una frase, e poi un’altra e via di seguito – rendendomi sempre più curioso di vedere dove si andrà a parare. In certi casi, ma molto raramente, parto dal titolo puro e semplice del racconto (mi è successo con Le mani della Guaraldi) e poi comincio ad arzigogolarci sopra – però di solito il titolo è l’ultima cosa a cui penso.  Un approccio di questo tipo non può portare che a traiettorie sghembe, con scarti improvvisi e incroci inaspettati. Devo dire che due volte su tre arrivo a concludere la storia – e anche con una certa soddisfazione personale. Il terzo racconto, abortito, va a finire in una specie di limbo (una cartella del pc) e di solito rimane lì a riposare per sempre. Certo, è una modalità estremamente antieconomica di procedere, e credo che ben pochi autori la seguano, ma siccome il mio scopo principale è quello di divertirmi e di passare il tempo, la cosa non mi dà il minimo fastidio. Trovo davvero bello e stimolante il fatto di ignorare completamente come si svilupperà la narrazione – breve o lunga che sia (adotto lo stesso metodo anche per i romanzi di svariate centinaia di pagine). Non ho mai accettato scadenze temporali, quindi l’angoscia del foglio bianco non so cosa sia: per esempio, al momento ho un romanzo bloccato da mesi sulle duecento cartelle editoriali e penso che ne occorreranno almeno altre cento per finirlo come si deve, ma non mi passa neanche per la testa di scervellarmi dalla mattina alla sera per cercare di trovare una soluzione all’impasse. Sono sicuro che, se lo facessi, sarebbe peggio: ci vuole serenità anche nel campo della scrittura – se poi si riuscisse a raggiungere addirittura la serendipity, sarebbe il massimo della gioia.Passando al termine “leggerezza”, penso che tu voglia alludere al concetto ben delineato da Calvino nella prima delle sue Lezioni americane: in effetti, pur non avendo sempre presente in modo conscio il dettato calviniano, credo di aver costantemente cercato di “togliere peso soprattutto alla struttura del racconto e al linguaggio”, in ciò tenendo conto anche dell’evoluzione delle opere di Gianni Celati. Cavazzoni nella seconda di copertina parla di “lingua campagnola” e la definizione mi sta bene – anche se potrebbe forse trarre in inganno qualche lettore distratto o superficiale. In realtà, la mia “voce”, soprattutto in questa raccolta, è il risultato di un’elaborazione molto spinta e prolungata – un’altra delle gioie profonde che ricavo dallo scrivere. Anche ciò che faccio succedere nelle mie storie è “leggermente” surreale: spesso la narrazione incomincia in modo tutto sommato abbastanza tranquillo, poi all’improvviso si ha come una bella ventata di surrealtà (a volte anche più di una) e la prospettiva viene completamente ribaltata, con mia grande goduria. D’altra parte, come sottolinea Cavazzoni, la surrealtà è solo un altro aspetto della realtà – quindi perché dovremmo castrarci di questa bella e potente possibilità inventiva? Certo, è un accorgimento che va usato con criterio e ironia, senza strafare. L’effetto complessivo che cerco di ottenere è appunto una tonalità ironica di fondo, ben lontana dal comico puro e semplice: come osserva Calvino nella prima lezione americana, “lo humour è il comico che ha perso la pesantezza corporea”.
Quanto alla vena di follia che ti pare di notare in tutti i trentuno racconti, mi preme soltanto far notare che tra il surreale e la follia, secondo me, c’è una bella differenza; sono comunque disposto ad ammettere che in Voci dal piano di sotto c’è, più che altro, qualcosa di gradevolmente anomalo in tutte le sue parti e componenti. Cosa devo dire, persino Teofilo Folengo, in pieno Cinquecento, affermava perentoriamente che non modenesus erit cui non fantastica testa, cioè balzana. Con il passare dei secoli siamo andati peggiorando. Molto.

Buona lettura di “Voci dal piano di sotto” di Gianfranco Mammi.


Antonello Saiz

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