Il romanzo debutto di Will Dean, La Caccia, edito da Marsilio, tradotto da Valeria Raimondi, è da oggi in libreria. Dopo aver lavorato per diversi anni nella City di Londra l’autore inglese, ritiratosi a vivere con la moglie nei boschi della Svezia, decide di dedicarsi alla scrittura. Prende forma così il primo episodio della serie noir, già opzionato per una serie televisiva, la cui protagonista è Tuva Moodyson, giovane giornalista con problemi di udito e terrorizzata dalle foreste svedesi.
Tuva fa ritorno a Gavrik, cittadina di provincia dove è cresciuta e dove i parcheggi non mancano, è infatti “stata progettata a prova di futuro, ma nessuno sa se e quando arriverà il futuro in cui la popolazione aumenterà del cinquanta per cento. E perché dovrebbe? Chi ci è nato e cresciuto se ne va appena può. Chi ci viene in visita certo non torna.” Per stare accanto alla madre, malata di cancro che “vive a Karlstad e io sono tutta la sua famiglia, perciò quando si è ammalata sono rientrata da
Londra.”, ora lavora per il giornale locale Gavrik Posten, con una tiratura settimanale di circa “seimila copie.” Non si aspettava di finire proprio al Gavrik Posten, “dopo quattro colloqui andati a buon fine in quattro redazioni decenti a poca distanza dalla mamma, ma è successo.” E succede che per lo stesso giornale seguirà l’inchiesta per la morte di un cacciatore avvenuta nel bosco. Una resa dei conti che affonda le sue radici nel passato, sia pubblico che privato, in cui l’isolamento si traduce nella metafora della vita che scorre, non risparmiando dolori e violenze, ma comunque da attraversare.
Claudia Caramaschi
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«Metti sul notiziario» dice Lena indicando il vecchio televisore appeso alla parete. Accendo gli apparecchi e parte il solito motivetto. «Lo sapevo!» esclama Nils entrando. È emozionato come uno scolaretto. «Vero, Lena? La foresta di Utgard è maledetta. Mio fratello mi ha raccontato che il corpo è stato trovato lì. Il suo amico che guida l’ambulanza ha ricevuto la chiamata. Non è vero che l’avevo detto che sarebbe successo di nuovo? Proprio così, l’avevo detto!» Cambio canale e mi sintonizzo sul notiziario locale. «Cos’hai saputo, Nils?» chiedo. «Cosa ti ha detto precisamente tuo fratello?»
Nils guarda Lena. «Pensi che si tratti di Medusa?» Si gira verso di me. «Prima che tu nascessi, Tuva.» Guarda Lars. «In che anni era?» «L’ultimo corpo è stato trovato nel 1994» dice Lars.
«Ma questo non…» Si gratta la testa pelata. «È successo vent’anni fa. E questo è stato un incidente di caccia, sicuramente.» «Certo» dice Nils. «Solo un incidente. Nella foresta di Utgard. Come no.
Mio fratello ha precisato che il corpo era nel villaggio di Mossen.» Mi infilo il giaccone.
Nils guarda Lena. «La lasci andare lì da sola?»
Mi infilo gli stivali e le faccio un cenno con la testa. «Chiamami se hai altri dettagli.» «Prendi la macchina fotografica» dice lei. Ovvio che prendo la fottuta macchina fotografica. «Certo» dico, e la recupero dalla scrivania di Lars dove si sta ricaricando, poi esco. La strada è buia e deserta. Non piove ma una foschia umida impregna l’aria. Il colpo di fucile che ha spaventato il mio alce era lo stesso che ha ucciso un uomo? Rabbrividisco e corro verso il parcheggio. Guido per trenta chilometri allontanandomi da Gavrik e passando sotto l’autostrada. La foresta di Utgard è sulla destra, ed è l’unico elemento del paesaggio che posso vedere. Oltrepasso un cartello coperto di erbacce e raggiungo un varco appena visibile in una barriera compatta di abeti rossi. Poco fa, mentre andavo verso sud tornando dalla cartiera, ci sono solo passata accanto, ma ora sono costretta a entrarci. Radio Värmland interrompe un pezzo folk per annunciare che la polizia ha isolato un’intera zona di Mossen dopo il ritrovamento di un cadavere e ha invitato cacciatori e proprietari di cani a stare alla larga.
Appena lascio l’asfalto la trasmissione si interrompe. Sullo sterrato passano due auto solo se entrambe si avvicinano pericolosamente al fosso. È buio pesto, porto al massimo i fari e strizzo gli occhi per vedere meglio fra un banco di nebbia e l’altro. In primavera la foresta non è male. È piena di fiori selvatici e i germogli degli abeti rossi colorano tutto di verde chiaro. Alla guida del mio pick-up Toyota Hilux posso farcela. Ma adesso è ottobre e gli aghi dei pini sono neri, il muschio è marrone e le betulle sono spoglie. Ci sono due gradi e sto guidando su uno sterrato fiancheggiato da pini compatti come un muro. Ogni tanto la radio torna a funzionare. C’è il meteo.
Ancora pioggia. Il gps mostra una linea sottile che attraversa una zona verde e si ferma proprio in mezzo, e cinque puntini lungo la linea, quindi non mi resta che trovare la casa con l’auto della polizia parcheggiata davanti. Mi gratto l’orecchio sinistro e tocco l’apparecchio, perché è inevitabile e perché mi rassicura quando sono in un posto come questo. Gli omicidi di Medusa sono finiti vent’anni prima che io arrivassi da queste parti. Sono una specie di leggenda locale, pochi fatti conditi da tante stronzate. Tre morti in quattro anni. La polizia non ha mai arrestato nessuno e a un certo punto la serie si è interrotta. I corpi sono stati trovati nella foresta, mutilati in qualche modo. È tutto quello che so. La gente qui non ama parlarne. E chi ne parla… non merita di essere ascoltato.