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Will Hermes anteprima. Lou Reed. Il re di New York

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Sono passati dieci anni dalla morte di Lou Reed, avvenuta nell’ottobre 2013, ma la sua fama è cresciuta nel tempo. Will Hermes racconta l’intera epopea di Lou Reed nella sua nuova biografia, Lou Reed. Il re di New York, ora disponibile in Italia grazie alla traduzione di Chiara Veltri e Paola De Angelis (Minimum fax, 2023, pp. 771, € 28).

Will Hermes, critico musicale di lunga data e collaboratore di Rolling Stone, è l’autore di Love Goes to Buildings on Fire, una storia definitiva della musica degli anni Settanta a New York. Ora è il primo biografo ad avere accesso ai nuovi e giganteschi archivi della New York Public Library. Il suo libro è affascinante e coinvolgente, spingendo il lettore verso l’ignoto.

Per la maggior parte delle persone, Lou Reed è il poeta del rock & roll che ha simboleggiato New York con la sua band, i Velvet Underground, nella scena della Warhol Factory degli anni Sessanta. I’m Waiting for the Man, Sister Ray, Sweet Jane sono canzoni che catturano l’impeto, a volte tossico, della città.

Negli anni Novanta, ha sorpreso tutti sposando un’altra formidabile artista di New York, Laurie Anderson, che aveva appena sentito parlare di lui. L’uomo che aveva dato vita a brani come Walk on the Wild Side e Vicious era diventato un anziano statista del rock.

Oggi il mondo assomiglia sempre di più a Lou Reed, Perfect Day può essere suonata ai matrimoni e l’orgia sadomaso di Venus in Furs può essere usata per lo spot televisivo dei pneumatici.

Questo libro ci consegna un personaggio esplosivo: “Reed non aveva paura di dire la verità anche in presenza del potere vero e proprio: quando si esibì alla Casa Bianca durante la presidenza Clinton, grazie all’ospite d’onore dell’evento, il presidente cecoslovacco Václav Havel (amico di Reed e grande fan dei Velvet Underground), cantò la strofa più saliente di Dirty Blvd con evidente piacere, nonostante l’amministrazione statunitense avesse cercato di censurare il suo set: «Give me your hungry, your tired, your poor I’ll piss on them. That’s what the Statue of Bigotry says», dicono i versi della canzone: ‘Datemi i vostri affamati, gli stanchi, i poveri e io gli piscerò addosso. Come dice la Statua dell’Intolleranza’, con un gioco di parole tra liberty e bigotry.”

Indimenticabile è il colloquio per l’arruolamento al quale si presentò sotto effetto di Placidyl, un sedativo ipnotico: “Dicevo di volere una pistola e che avrei sparato a qualsiasi persona o cosa avessi avuto di fronte.” Venne quindi riformato per problemi mentali: “Fu l’occasione in cui mi tornarono utili gli elettroshock che avevo subito,” ammise.

Per dimostrare la sua importanza: “Brian Eno, musicista visionario e guru della produzione musicale, una volta disse che solo trentamila persone avevano comprato il primo disco dei Velvet Underground, ma poi ognuno di loro aveva fondato un gruppo.”

Per l’autore, Lou Reed, un mito senza tempo, combatteva una buona battaglia, e molto spesso sentiva che era soprattutto con sé stesso. Questo libro è imperdibile per chi vuole conoscere la storia di Lou Reed, un uomo che, forse, avrebbe voluto fare lo scrittore, ma poi si è rassegnato a diventare una leggenda del rock.

Carlo Tortarolo

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Come molti autori, forse la maggior parte, Lou Reed non amava che si scrivesse di lui. Nella storia della popular music contemporanea, nessuno odiava le interviste più di lui. Una rapida ricerca su YouTube ci mostrerà un Lou Reed che sviscera con estrema freddezza vari intervistatori in situazioni che vanno dall’esilarante all’orripilante, a seconda dell’empatia che si prova nei confronti dei giornalisti. Agli aspiranti biografi non andava certo meglio: uno di questi costrinse Reed a inviare una lettera prestampata a decine di amici e colleghi chiedendo loro di non collaborare («La vita è già abbastanza difficile senza un Albert Goldman tra i piedi»,1 disse a proposito del controverso autore della biografia di John Lennon). E aveva ragione. Soprattutto se sei un artista che vive di fluidità e reinvenzione, perché ti dovrebbe far piacere essere incasellato nella storia raccontata da qualcun altro? Lou Reed voleva controllare la narrazione di sé.

Ciò non deve stupire, dato che oltre a essere uno dei musicisti più importanti del secolo scorso, era anche uno scrittore. Pubblicò sul New Yorker il diario di un tour; scrisse un memoir per il New York Times Magazine, poesie per The Harvard Advocate e altre riviste. Pubblicò interviste (per esempio quella allo scrittore Hubert Selby Jr.); era anche critico d’arte – scrisse un’analisi delle opere del fotografo Robert Frank, una recensione dell’album Yeezus di Kanye West – e di eulogie, ad esempio di David Bowie e Delmore Schwartz. Da studente all’Università di Syracuse, seguì corsi di giornalismo e scrittura creativa e diresse una piccola rivista letteraria. Quando i Velvet Underground, che presto sarebbero diventati un gruppo leggendario, si sciolsero, provò a pubblicare un libro di poesie e pensò seriamente di cambiare mestiere e tornare alla carriera accademica. «Credo che non abbia mai fatto pace con l’idea di dover fare lo scrittore e non il musicista rock», commenta Don Fleming, curatore del Lou Reed Archive presso la New York Public Library for the Performing Arts.2

A volte però Reed finiva per diventare intimo con alcuni giornalisti e di sicuro trasse beneficio da tutti coloro che amavano il suo lavoro. A parte Bob Dylan e i Beatles, pochi autori sono stati oggetto di analisi così serie. Nella raccolta di saggi di Greil Marcus intitolata Stranded, Ellen Willis, una delle più importanti critiche culturali americane, ha compilato una playlist con le canzoni dei Velvet Underground che avrebbe portato con sé su un’isola deserta. Giornalisti di tutto il mondo hanno dichiarato la loro adorazione per Reed e i Velvet e si sono ispirati alla loro visione creativa. Alcuni di loro, come Lester Bangs e Peter Laughner, erano fan a livelli quasi patologici. In effetti le canzoni migliori di Reed, in perfetto equilibrio tra l’Es più sfrenato del rock’n’roll e il suo Super Io intellettuale, sono un invito a nozze per un certo tipo di sensibilità. Anche se era contrario all’interpretazione in chiave autobiografica, la sua musica era il prodotto di una vita borghese e convenzionale ma al tempo stesso incredibilmente trasgressiva. La sua musica risulta più profonda, e ancora più stimolante, se si conoscono le sue vicende personali. La mia carriera di scrittore si è sempre basata sulla convinzione che la miglior musica, «pop» o meno, dia vita a riflessioni e discussioni appaganti quanto quelle sulla miglior letteratura e sul miglior cinema. Anch’io, in un certo senso, sono figlio di Lou Reed. Ecco quindi il perché del libro che state leggendo.

Reed cominciò la sua carriera scrivendo canzoni d’amore, di solitudine e di persone imperfette, argomenti comuni del rock’n’roll rivolto a un pubblico di adolescenti, l’unico concepibile per quel tipo di musica negli anni Cinquanta e primi Sessanta. Ma le sue prime canzoni parlano anche di droga, violenza domestica, psicologia di genere, dipendenza, rapporti bdsm. Tutti argomenti radicali e rivoluzionari nel 1966, l’anno in cui il gruppo registrò il disco di debutto, The Velvet Underground & Nico. Quando oggi canzoni con argomenti analoghi entrano in classifica (ad esempio «s&m» di Rihanna e brani simili) è difficile immaginare quanto fosse inaudito all’epoca «il manifesto programmatico» di Reed: «prendere il rock’n’roll, il formato pop, e farlo diventare un genere per adulti. Con argomenti da adulti, scritto in modo che potessero ascoltarlo persone come me».3

Per gli standard dell’epoca, i Velvet non furono mai un gruppo di successo: non ebbero mai un singolo in classifica, negli Stati Uniti suonarono sempre in piccoli club, almeno fino alla reunion degli anni Novanta, e per un certo periodo i loro dischi andarono persino fuori catalogo. Erano un segreto condiviso da pochi e illuminati seguaci, oppure da altri artisti: interpretare una canzone di Lou Reed indica ancora oggi l’appartenenza a una corporazione di arti oscure all’avanguardia estetica. David Bowie, sempre in anticipo sui tempi, candidato al titolo di superfan per eccellenza di Lou Reed, batté sul tempo lo stesso Reed pubblicando una versione di «I’m Waiting for the Man» che aveva sentito grazie a una copia promozionale su acetato, prima ancora dell’uscita del disco di debutto dei Velvet. I R.E.M., grande gruppo di Athens, Georgia, fautore di un rinnovamento estetico del rock negli anni Ottanta che usava il catalogo dei Velvet come la stele di Rosetta, pubblicarono almeno tre cover di canzoni di Reed. I Cowboy Junkies fecero una versione di «Sweet Jane» all’altezza di quelle memorabili di Reed. Il gruppo hip-hop A Tribe Called Quest campionò la celebre linea di basso di quel mosaico picaresco che è «Walk on the Wild Side» per il loro singolo «Can I Kick It?», pietra miliare del primo hip-hop. Un album di cover di The Velvet Underground & Nico uscito nel 2021 ha visto la partecipazione di una generazione successiva di musicisti, da Courtney Barnett e St. Vincent a Sharon Van Etten e Kurt Vile.

Anche artisti provenienti da altre discipline si sono ispirati all’opera di Lou Reed. Jesus’ Son, la splendida raccolta di racconti del grande scrittore Denis Johnson, prende il titolo da «Heroin», una delle canzoni di Lou Reed dal testo più crudo ed emblematico. Le canzoni dei Velvet Underground fanno da colonna sonora all’iconico slide show di Nan Goldin, The Ballad of Sexual Dependency. I riferimenti alle canzoni di Reed sono parte integrante di Prozac Nation, il memoir di Elizabeth Wurtzel, tanto che Reed si guadagnò un cammeo nella versione cinematografica del libro. Generazioni di cineasti, sceneggiatori, music supervisor e pubblicitari cresciuti con la sua musica l’hanno poi usata come scorciatoia emotiva per sonorizzare una vasta gamma di scenari: etero e queer, trasgressivi e non. Oltre a Todd Haynes (in Velvet Goldmine, il film sul glam rock, c’è un personaggio basato su Reed, mentre il suo documentario sui Velvet Underground è stato, secondo le classifiche della critica, il migliore dell’anno 2021); c’è Danny Boyle (la scena dell’overdose in Trainspotting immortalata dalle note di «Perfect Day»); Joey Solo­way con Transparent; Wes Anderson con I Tenenbaum; Gus Van Sant con Last Days; Lena Dunham con la serie televisiva Girls; Sharon Horgan con Bad Sisters; Julian Schnabel, amico di Reed, con Lo scafandro e la farfalla; Jenji Kohan con la serie Orange Is the New Black; Wim Wenders con Così lontano, così vicino; Noah Baumbach con Il calamaro e la balena; Mike Mills con C’mon C’mon; Judd Apatow con il documentario George Carlin’s American Dream; David Lynch con Strade perdute (in cui Lou Reed riprendeva «This Magic Moment» di Doc Pomus, in una versione graffiante e aggressiva); e molti altri. A più di mezzo secolo dalle sue prime canzoni, l’opera di Lou Reed occupa un posto fondamentale nel discorso culturale contemporaneo.

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Estratto da Lou Reed. Il re di New York di Will Hermes

© Will Hermes, 2023

Published by arrangement with Farrar, Straus and Giroux, New York and The Italian Literary Agency © minimum fax, 2023

Tutti i diritti riservati

1. Lou Reed, lettera a David Bowie del 24 novembre 1992, Lou Reed Archives, New York Public Library for the Performing Arts.

2. Miss Rosen, «A Guide to the Poetry of Lou Reed», Another Man (online), 17 aprile 2018.

3. Lou Reed in Bill Flanagan, Written in My Soul: Conversations with Rock’s Great Songwriters, Contemporary Books 1987, p. 329.

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