Una sera del 1997, al Madison Square Garden, David Bowie presentò Lou Reed come il “re di New York”. Reed negli anni Sessanta era diventato fonte di ispirazione per tanti giovani artisti angloamericani come l’allora diciassettenne Bowie: “Era una musica così cool che non credevo fosse umanamente possibile”. L’amicizia tra le due rockstar è tra le parti più interessanti di “Lou Reed il re di New York” di Will Hermes – edito in Italia da minimum fax con la traduzione di Chiara Veltri e Paola De Angelis – una biografia così vasta e articolata da rivelarsi già dalle prime battute una mappa straordinaria per orientarsi nel suggestivo mondo della cultura e della controcultura americana nel trentennio che ha visto cambiare per sempre la scena musicale e non solo quella. Le oltre settecento pagine di Hermes celebrano il primato di Reed ma danno spazio anche a tutti gli altri protagonisti che sono ruotati intorno alla star, perché “Al pari di molti artisti, ed essere umani compiuti, Reed è stato il prodotto di una comunità”.
La comunità di Reed si chiama Velvet Underground, una band di scarso successo commerciale ma che negli anni della rivoluzione sessuale ha avuto un peso specifico paragonabile a quello di grossi team come Beatles e Rolling Stones “i primi artisti rock importanti a non avere alcuna possibilità di attrarre un pubblico di massa”. I distacchi, i ritorni, la nostalgia: la lunga storia di Reed, che è fatta di rovinose cadute, dipendenze da alcol e da ogni genere di droga, trasgressioni e malattie mentali, è indissolubilmente legata a quella dei Velvet. Una volta però chiusa l’esperienza col gruppo, Reed si trova davanti a un bivio: reinventarsi come musicista o mollare tutto. Il rock si sta scindendo in due scuole di pensiero: il progressive, molto ispirato dalla musica classica europea, e il glitter, che punta al punk. Entrambi i filoni hanno per capitale Londra, la patria di Bowie. Reed capisce che deve ripartire da lì. Il suo primo album da solista lo incide a Londra; la consacrazione arriverà con il disco successivo (Transformer, uscito l’8 novembre del 1972), che conterrà due dei suoi maggiori successi di sempre: Perfect day e Walk on the Wilde Side, con quella doppia linea di basso – una suonata col contrabasso acustico l’altra con un Fender Jazz elettrico del 1960 – che farà storia. Quello di Reed è un percorso avventuroso ma corroborato da mille altri interessi e da numerose contaminazioni che oltrepassano i confini della musica: non è un caso che i due mentori di Reed abbiano avuto poco a che fare con il rock. Il primo è Dalmore Schwartz.
Il grande Schwartz che a soli venticinque anni arrivò al successo con una raccolta intitolata Nei sogni cominciano le responsabilità e che ispirò il protagonista de Il dono di Humboldt, il romanzo col quale Saul Bellow vinse il Pulitzer, fu uno dei professori di Reed alla Syracuse University. In cattedra ci arrivò proprio grazie all’intercessione di Bellow dopo che l’alcol e la depressione lo avevano reso uno straccio e avviato alla morte. L’altro è Andy Wharol, l’inventore della Pop art fu anche il primo a credere nei Velvet e a fargli da manager. Come Wharol, Schwartz occupa buona parte del libro e ci consente di scoprire un lato forse poco conosciuto della star: la passione per la scrittura. Reed pensava di farne un mestiere prima che la sua vita sterzasse definitivamente verso amplificatori e chitarre elettriche (“sono uno scrittore, non farò altro che aggiungere la musica” diceva ai compagni di corso alla Syracuse). Amava autori come William Burroughs (Heroin e I’m Waiting for the Man sono di fatto la versione musicale di Pasto Nudo) e Hubert Selby Jr “Hubert Selby Jr, William Burroughs, Allen Ginsberg e Delmore Schwartz… Riuscire a fare quello che hanno fatto loro, nel breve spazio di una canzone, usando parole altrettanto semplici. Se arrivi allo stesso risultato di quegli scrittori, aggiungendoci batteria e chitarra, non puoi fare di meglio sulla terra”. Ed è esattamente questo che Reed ha fatto in quarant’anni di carriera, tra alti e bassi, numerose collaborazioni con altri artisti, riscoperte e adattamenti a nuovi mood musicali, tour in giro per il mondo, riconoscimenti forse tardivi, esperienze letterarie fatte di poesie e recensioni, gli amori di una notte e quelli di una vita, come Laurie Anderson, la donna che lo ha visto morire per un brutto male al fegato nel giorno del compleanno di Sylvia Plath e Dylan Thomas e che ne ha tramandato il mito. Quale eredità Lou Reed lascerà ai posteri? Tanta roba, ma davanti a ogni altra cosa l’impronta della sua passeggiata selvaggia, con quelle due linee di basso che ci fanno battere il cuore. Du du du du du – du du du du.
Angelo Cennamo