Riscoperto soltanto lo scorso anno negli Stati Uniti come “il gigante nascosto della letteratura americana” viene finalmente tradotto anche da noi William Melvin Kelley con il romanzo che lo ha fatto conoscere a milioni di lettori in tutto il mondo: Un altro tamburo, NN Editore, traduzione di Martina Testa, pagg. 248, euro 19.
Ambientato nel 1957, nella piccola città di Sutton, in uno stato immaginario del Midwest segregazionista tra Alabama e Missouri, ha per protagonista il nero Tucker Caliban che, come i suoi genitori e i suoi antenati, fa il bracciante nella piantagione della famiglia Tucker. Sino al giorno in cui decide di ribellarsi: sparge sale su tutto il raccolto per bruciare la terra, uccide il bestiame, dà fuoco alla propria casa e fugge con la propria famiglia. Molti altri neri prendono esempio da lui e si trasferiscono tutti al Nord dove presto si trovano a fare i conti tra la loro libertà e i loro sogni che spesso li riducono a vivere nella miseria di un’America sconvolta da questa rivoluzione.
Pubblicato nel 1964, due anni dopo Il buio oltre la siepe di Harper Lee, Un altro tamburo non passò inosservato proprio perché in quegli stessi anni i neri americani lottavano per vedere riconosciuti i propri diritti civili. La carica esplosiva del romanzo era e rimane non da poco, anche se l’autore, che lo scrisse a soli ventitrè anni, complica troppo la trama perché in ogni capitolo la voce narrante è diversa. Un precursore del post-moderno, che oggi leggiamo come un capolavoro di stile e di citazioni: a partire dal titolo tratto dal “Walden ovvero Vita nei boschi” di Henry David Thoreau sino al cognome del protagonista, Tucker Caliban: Caliban come lo schiavo protagonista de La tempesta di Shakespeare.
Al di là dei riferimenti letterari e delle ispirazioni- si sente l’influenza di William Faulkner e di Flannery O’ Connor, i due grandissimi scrittori americani ai quali non a caso William Melvin Kelley è paragonato- rimane una lettura godibilissima, un romanzo che ci fa porre molte domande, non solo quelle dirette del protagonista come quando afferma che “chiunque, chiunque si può liberare dalle catene. Quale coraggio, per quanto sia nascosto in profondità, aspetta sempre di essere chiamato fuori. Basta solo usare le parole giuste, e la voce giusta per pronunciarle e uscirà ruggendo come una tigre”.
Gian Paolo Serino