Un tempo Al Ward era un discreto musicista, suonava in cover band di Reno e Las Vegas, nei circuiti dei casinò. Componeva anche delle buone canzoni per altri, alternando periodi fortunati a stagioni di magra. Oggi Al vive a duemila metri di altitudine, nel deserto del Nevada, dentro una baracca senza elettricità né acqua corrente, tirata su dietro una miniera abbandonata. A sessantasette anni si direbbe un uomo finito: solo, povero, nessuna prospettiva. Le giornate interminabili le trascorre facendo lunghe passeggiate in mezzo alla neve e scrivendo canzoni che non canterà più nessuno. Una mattina, dalla finestra del suo rifugio, Al vede un cavallo. La bestia è cieca, immobile, sembra irreale. Potrebbe trattarsi di un’allucinazione e non sarebbe la prima volta: l’isolamento e l’alcol (Al ci va giù duro con birra e tequila) giocano brutti scherzi. Sogno o verità, il nostro eremita ha deciso: farà di tutto per salvare quella strana presenza che dal nulla ha fatto irruzione nella sua vita, proprio lui che con i cavalli non ha mai avuto a che fare.
Inizia così Il Cavallo, il nuovo romanzo di Willy Vlautin, in Italia con Jimenez e la traduzione di Gianluca Testani, centottantasette pagine di minimalismo vecchia maniera, farcite di canzoni e nomi di leggendari folk singer. Chi ha letto romanzi come Motel Life, Verso Nord, The Free… – tutti pubblicati da Jimenez – ha avuto modo di apprezzare le doti di questo bravissimo scrittore e frontman di band di successo (Richmond Fontaine, The Delines), nato e cresciuto a Reno, nel Nevada, il set di tutte le sue storie. Il romanzo, diviso in paragrafi brevi, si sviluppa su due piani temporali: il presente, con la vicenda del cavallo; il passato, attraverso una serie di flashback che ripercorrono la carriera del musicista, tra serate e flirt complicati, come quello con la cantante Mona, la donna di un altro. Mona ha il doppio degli anni di Al, beve come una spugna, è gelosissima del suo giovane amante ma non rinuncia all’altro uomo, anche suo datore di lavoro. Sono tanti i bocconi amari da mandare giù “Se odi stare qui, prova a scomparire dentro una canzone”. Le storie di Vlautin sono velate di malinconia e i personaggi che le abitano “camminano sulle sporgenze” come disperati alla ricerca di un approdo, uomini e donne deluse che possono cedere all’alcol ma non all’autocommiserazione. “Perché tutte le tue canzoni sono tristi?”, chiedono a Al nelle ultime pagine del libro. “Otto anni fa mi trovavo in una strada sterrata nel centro del Nevada con un vecchio amico, Brian Foster. Eravamo a cinquanta chilometri da Tonopah e si avvicinava il crepuscolo quando ci imbattemmo in un cavallo selvaggio nel bel mezzo del deserto”.
La trama del suo romanzo Vlautin l’ha imbastita intorno a questo episodio realmente accaduto. Al e quel cavallo si somigliano: entrambi sono scarti di un tempo migliore. La scena in cui Al difende il cavallo dall’attacco dei coyote sembra uscita dalla trilogia di Cormac McCarthy. Il Cavallo è una storia di solitudine, un tributo alle buone canzoni e a tutti quei musicisti invisibili, sempre in viaggio tra squallide stamberghe, bar, locali che puzzano di fumo e di fallimento. Offutt, Rash, Joy… è questo lo spartito letterario di Vlautin, autore, come gli altri citati, dal tratto identitario e poeta di un’America verace, spietata, epica.
Angelo Cennamo