Per il trentennale della caduta del muro di Berlino, le edizioni Keller pubblicano “Le femmine e Vecchio scorticatoio” di Wolfgang Hilbig, uno dei più importanti scrittori tedeschi del Novecento. In questi due racconti dove poesia e prosa si fondono perfettamente restituendoci la memoria di un’epoca spietata come il Novecento tedesco, Hilbig ci mostra l’inferno delle fabbriche, una realtà che ben conosce avendovi lui stesso lavorato come fuochista.
Ne esce uno spaccato allucinatorio della vita nella DDR tra stabilimenti terribili, miniere in disuso e animali scuoiati che rievoca come nessun altro il frantumarsi del blocco socialista. Sarà proprio in quel contesto al limite dell’umano che Hilbig si ritaglierà lo spazio da dedicare alla scrittura liberando il proprio genio letterario.
Tra le figure più significative di tutta la Germania del dopoguerra, l’autore è stato associato da certa stampa americana a Edgar Allan Poe («Scrive come Edgar Allan Poe avrebbe potuto scrivere se fosse nato nella Germania orientale comunista.» – Los Angeles Review of books); grandissima la sua capacità di indagare l’umano portandone alla luce le pulsioni più recondite.
Hilbig fu osteggiato dalla censura, ma poi riuscì a farsi pubblicare una prima raccolta di poesie nella Germania ovest, seguita da racconti e romanzi che ottennero grande successo di critica e gli valsero tutti i principali premi letterari tedeschi tra cui il Georg-Büchner-Prize. Nel 1985 si trasferì nella Germania dell’ovest grazie a un permesso di espatrio temporaneo che fece scadere senza fare ritorno dall’altra parte del muro. Dopo la riunificazione si spostò a Berlino con la moglie da cui poi si separò. Morì alcolizzato a sessantasei anni.
Le femmine e Vecchio scorticatoio (Keller 2019, traduzione dal tedesco di Roberta Gado e Riccardo Cravero, pp. 224, euro 16,50) sono considerati tra i suoi capolavori.
In esclusiva per Satisfiction vi presentiamo un estratto da Le femmine.
Silvia Castellani
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Mai prima di allora c’era stata la benché minima avvisaglia dell’enormità che avevo sotto gli occhi dal mio licenziamento: la scomparsa delle femmine, ne ero convinto, doveva aver avuto luogo molto in fretta, un’iniziativa radicale e condotta senza intoppi, un blitz al quale nessuno aveva opposto resistenza, poteva darsi che fossero sparite tutte insieme volontariamente, era come se si fossero dissolte nell’aria, disperse da un vento di cui non mi ero accorto. Probabilmente era successo nell’orribile trambusto del giorno che mi avevano cacciato dalla fabbrica; la sera, infatti, quand’ero comparso in città – per me fu un ritorno a un luogo che credevo già perduto – percepii all’istante che la situazione non era più coerente con i miei ricordi, lo fiutai con l’istinto di una iena. Mi domandavo se la loro scomparsa fosse in relazione causale con il mio ritorno, se si sentissero in pericolo perché avevo molto più tempo per aggirarmi liberamente nelle strade, se le avessi in qualche modo spaventate, costrette ad andarsene, se il mio arrivo in città le avesse semplicemente dissolte, se non tollerassero la sostanza di cui ero fatto, se fossi una specie di antimateria per la loro materia. O se invece fossi solo io che non riuscivo più a vederle… a sentirne le voci, l’odore. Ci ero riuscito almeno finché andavo ancora in fabbrica, che era un cosiddetto stabilimento femminile dove erano impiegati solo pochi esemplari maschi… se non mi sbagliavo. Non ero più sicuro di non sbagliarmi, su questo punto: se per caso non avessi già smesso di vederle, le donne, di registrarne la presenza già in fabbrica. Per settimane non ebbi quasi più dubbi di essere io il responsabile della loro fuga, che quel che chiamavo il mio ritorno alla vita esterna ai loro occhi fosse apparso un’offesa mostruosa. Ma che cos’era di me ad averle fatte scappare, era l’incombere onnipresente delle mie tirate minacciose, era il mio aspetto, queste colorazioni ormai fuori controllo, il fatto che diventavo ogni giorno più tetro? Era la mia eccitazione, quella specie di losca libidine che mi prendeva finché mi rendevo conto che era priva di fondamento, che mi mancava la forza per mettere in pratica le sue fantasie? Era la mia concupiscenza che trovavano ripugnante, l’odore della mia secca concupiscenza, la smania di vederle continuamente, di averle vicine, era la mia mano che da un pezzo aveva iniziato a tremare perché non poteva toccare, accarezzare una delle loro? Era la mia cupidigia che mi faceva raccogliere i fazzoletti di carta che loro gettavano? Era il rumore del mio gargarozzo mentre vuotavo le bottiglie? Era il rumore delle mie ciglia che si abbassava- no se solo un loro sguardo mi lambiva di sfuggita? Era che davo nell’occhio mentre cercavo disperatamente di non dare nell’occhio? Ah, era il pianto che mi scuoteva quando di notte mi andavo a rintanare nella mia stanza senza alcuna prospettiva di vedere anche soltanto una di loro, era la mia rabbia che presentivano?
Naturalmente era possibile il contrario: che fossi scomparso io mentre loro c’erano ancora, al posto mio. Che non le vedessi perché ero lontano, inesistente, divorato e nascosto nelle budella delle mie stesse piattole che non potevano annidarsi nella fredda purezza delle femmine. Oppure ero nascosto nelle budella di mia madre…
Wolfgang Hilbig
© 2019 Keller Edizioni