La sponda oltre l’inferno, il nuovo romanzo di Younis Tawfik – scrittore di origine irachena ed uno dei più importanti esperti di questioni mediorientaali – in uscita da Oligo, si muove toccando le diverse sponde del Mediterraneo, e quella “sponda oltre l’inferno” verso cui si avventurano migliaia di migranti senza speranza. Tawfik sceglie di raccontare una goccia di quella marea umana che, ogni giorno, provenendo da innumerevoli paesi, si imbarca verso le spiagge dell’isola di Lampedusa. Si tratta della vita di quattro sopravvissuti a un naufragio al largo della Libia, i quali hanno la ventura di incontrarsi sull’isola siciliana, sedendo in cerchio alla luce della luna. Sono tre uomini e una donna, ognuno originario di un paese africano, che si conoscono durante il soggiorno forzato di un centro di detenzione nei pressi della città di Tripoli, il luogo dove di solito le carovane umane di migranti si predispongono per l’ultimo salto che li porterà – o li dovrebbe portare – in salvo sulle coste italiane. Attraverso le loro voci – nella narrazione di sofferenze inferte dai carcerieri, fame e malattie – prende corpo un unico racconto in grado di diventare la voce di tutte quelle migliaia di sventurati che, da anni, continuano ad affidare a una precaria imbarcazione tutte le loro speranze di vita e di futuro. Un libro quello di Tawfiq che non può non toccare in profondità la sensibilità e la coscienza di chi legge, ma senza indulgere in facili pietismi ma, al contrario, costruendo uno straordinario lirico corpo letterario di sorprendente bellezza.
Paolo Melissi
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Il mare è un mostro. È malvagio. Un polipo con tentacoli senza fine. Un’affascinante bestia mitologica con la pelle liscia e morbida come seta. Ti avvolge dolcemente, ma ti divora quando è arrabbiata. È un essere senza pietà.
Quando si è dentro ci si lascia avvolgere come nell’abbraccio di un’amante, che ha braccia tiepide e sensuali, addirittura materne, perché a volte fanno dondolare.
Ti sciogli nelle sue coccole. Coccole assassine.
Ho sempre avuto un rapporto d’amore e d’odio con le onde.
Talvolta ancora mi fermo sulla costa con i piedi appena lambiti dall’acqua fredda e frizzante, per conversare con lui. Sì, lui, il mare che parla, mormora, borbotta, ride, e che quando s’infuria ulula come un lupo affamato.
Sono nato in un villaggio lontano dalla riva spumosa, dall’acqua che canta e grida; un villaggio dove l’acqua tace, e tace perché non c’è, neppure quella per bere. Figuriamoci per annegare.
Si attingeva dai rari e aridi pozzi, o si attendeva la cisterna, una volta alla settimana, per poterne avere qualche litro. Poi venne messa anche in casa, ma usciva a sputi, rosso mattone, borbottando.
Si giocava con la sabbia e le pietre, roventi, asciutte. Non sapevo che cosa e come in realtà fosse quel grande lago che si raccontava essere blu profondo, lontano, camminando verso nord dal mio paesello. Lo so che non si beve, l’ho sempre saputo, ma il solo pensarci mi metteva sete.
Quando ebbi sei anni, mio padre decise di trasferirsi a Tripoli per cercare lavoro. La campagna era in crisi e non si poteva vivere del frutto arido di una terra arida cosparsa di pietre roventi.
(…)
In questa sponda al di là dell’inferno c’è la stessa acqua, lo stesso scoglio dove adesso mi trovo a piangere il mio destino, la stessa pena che mi assale e mi lacera l’anima. In questa opposta riva è lo stesso sole che acceca e scalda, ma non nasconde le sofferenze di chi ha perso tutto, pure l’anima.
Lampedusa, la terra della salvezza e della speranza.
L’isola dove si aggrappano i sopravvissuti per ritrovare la vita sfuggendo alla morte. Il sogno infranto sotto i colpi delle onde e l’ammasso di corpi martoriati sopra le rocce. La meta per i miserabili, i mansueti, che fuggono da loro stessi per riconciliarsi con il mondo.
Essa è l’oasi che unisce un povero gruppo di persone, quale ora noi siamo, che per sentirsi ancora vive raccontano sottovoce la loro fuga, la sofferenza e i sogni lacerati dal vento e infranti tra le onde.