Riuscire nell’impresa estrema di sfuggire alla morte, di porre in salvo corpo e mente -dell’anima nominata in tale forma non è dato sapere, ma tutto parla di una consequenzialità insita, fisiologica- : pare questo il tema portante dell’architettura di Zero K, attesissimo, ultimo romanzo di Don DeLillo portato ai lettori italiani in questi giorni da Einaudi tramite la coscienziosa, accurata traduzione di Federica Aceto.
E lo è.
Ma lo scrittore americano, tra i massimi viventi, anche stavolta -in condizione di rarefazione del narrato controllatissima- dilata e sconfina a toccare altre questioni cruciali: al protagonista, Jeffrey Lockhart, “un uomo involontario” nonostante abbia raggiunto la pienezza dell’età adulta, consegna anche il compito di tracciare un arduo e necessario bilancio esistenziale, di tirare somme a individuare, ricucire forse, rapporti paterni e filiali personali eppure universali.
Lo attenderanno ombre da attraversare e porte da superare per comprendere e comprendersi.
E una ridda di immagini da un futuro troppo prossimo a invadere il suo campo visivo, complice una tecnologia onnipervasiva e dominante di schermi a schiantargli davanti, ineludibili, forme o rappresentazioni di una verità dai confini labili, pervase da suoni di lingue straniere, codici stranianti, che rendono il protagonista -come noi- straniero a se stesso.
La storia narrata si apre con un incipit di straordinaria potenza: “Tutti vogliono possedere la fine del mondo”. Sono le parole del padre, il magnate Ross Lockhart, finanziatore di una futuristica azienda di tecnologie avanzate, la Convergence, situata nel deserto del Kazakistan, primo “altrove” del romanzo.
E’ qui, a possedere in qualche modo se non altro la fine del proprio mondo che accompagna la seconda moglie, Artis Martineau, ormai in fin di vita: intende infatti consegnarla alla struttura che si occuperà di preservarne il corpo in una capsula (mantenuta alla temperatura stabile di zero gradi Kelvin, da cui il titolo) fino a quando la medicina avrà fatto i giusti passi e sarà in grado di sconfiggere la sua malattia. E con lei, incapace di vivere nella sua assenza, porta anche se stesso, pur sano, per essere posto nella speciale cella criogenica a sospendere e dominare i tempi della propria morte.
Le decisioni sono state prese, a Jeff tocca assistere a ciò che sarà: è ora il tempo ultimo per tentare di ricucire i rapporti incrinati da molto col padre, ma anche di riconsiderare a distanza dal luogo in cui abita abitualmente, un quartiere newyorchese il rapporto con la compagna e il figlio adottivo di quest’ultima.
La prima parte del romanzo si sviluppa “Nel tempo di Čeljabinsk”, una città degli Urali sconosciuta al mondo fino al 15 febbraio 2013 quando venne colpita da un formidabile meteorite di dimensioni straordinarie la cui caduta venne -segno dei tempi- opportunamente documentata da immagini televisive a rendere globale l’evento: un cenno dall’alto, ingovernabile, come le comete segno di cambiamento, a risvegliare paure ataviche mai sopite.
In questo Tempo del Grande Meteorite si aggira dunque Jeff alla ricerca del padre, bussando a porte “tutte sbagliate”, in un luogo reale ma vergine e puro, una “terra che è stata percorsa da nomadi per migliaia di anni. Pastori in aperta campagna. Non è una terra flagellata e pressata dalla storia.”, dove tutto può accadere, anche la vittoria sull’ultima sconfitta dell’Occidente, la morte.
Qui, nei corridoi di Convergence, si dice si costruisca un futuro di un nuovo tipo, che assicuri: “la trascendenza, la promessa di un’intensità lirica al di fuori dei parametri dell’esperienza normale”.
Una via di salvezza destinata solo a chi possieda i mezzi economici per prenotare una propria cellula dove accomodare il corpo, privato temporaneamente del cervello, in condizione di sonno apparente, meglio ancora, di un incantesimo la cui risoluzione però non è scontata e i cui effetti-spire vengono sottolineati da DeLillo con una prosa accuratamente affine alla musicalità della cantilena, ipnotica e avvolgente come un mantra: è quella chant-like quality che l’autore ha più volte dichiarato di ricercare, lontanissima dall’esercizio di stile. Il suo esito, difficoltoso da eguagliare, è una scrittura alla sola apparenza semplice, quasi scarnificata, e scorrevole, che conserva carattere di permanenza e deposita tracce nel profondo.
Jeff osserva attonito i corpi vetrificati nei gusci, vuoti che contengono altri vuoti e assiste con lo sgomento che sarebbe di tutti “ai momenti labirintici, il tempo sospeso, i contenuti smorzati, la mancanza di spiegazioni”.
Esprime un bisogno primario di comprensione: comprendere passa per Jeff per la parola, è solo rinominando gli oggetti e le persone, battezzandoli a modo suo, che riesce a capire: “Ho guardato di nuovo la donna con il foulard in testa, sempre senza nome. Non poteva essere vera se non le davo un nome”.
Così facendo, il protagonista recupera un comportamento che trova origine nella sua infanzia, quello dell’ossessione per le parole, non necessariamente scritte, anche puro suono, forma, musica:
Mia madre aveva un rullo per togliere i pelucchi dai vestiti. Non so perché quell’oggetto mi affascinasse tanto. Guardavo mia madre che guidava quell’aggeggio sulla schiena del suo cappotto di panno. Provavo a definire la parola rullo senza sbirciare sul dizionario. Ero seduto a pensare, poi mi dimenticavo di continuare a pensare e ricominciavo daccapo, appuntando qualche parola su un blocchetto, sentendomi rincretinito, a momenti alterni, per tutta la notte e il giorno seguente.
Oggetto cilindrico rotante atto a raccogliere piccoli pezzi di stoffa che spuntano dalla superficie di un indumento.
Quell’impresa mi dava la soddisfazione di qualcosa di guadagnato con fatica, nonostante mi fossi prefissato di non controllare la definizione del dizionario. Il rullo sembrava uno strumento del diciottesimo secolo, un oggetto usato per strigliare i cavalli. Era gia da un po’ che facevo questa cosa: cercare di definire la parola che designava oggetti o anche concetti. Definisci lealtà, definisci verità. Fui costretto a smettere perché la cosa rischiava di uccidermi.”
Solo nel “nominare” come da bambino tutto ciò che è attorno, tutto si addomestica, tutto diventa più chiaro: nel ricordo, Jeff rielabora il proprio vissuto: “Cominciavo a conoscerlo meglio, mio padre (che scopriremo, si era dato un nome diverso anch’egli, ribattezzandosi n.d.r.) e anche me stesso, di secondo in secondo, di parola in parola” e ancora “Ho guardato allo specchio del lavandino e ho detto il mio nome ad alta voce. Poi sono andato a cercare mio padre.”
La questione della parola e del linguaggio è fondante e percorre come una corrente carsica tutto il romanzo:
Quelli che alla fine usciranno dalle capsule saranno esseri umani astorici. Saranno liberi dagli encefalogrammi del passato, dai minuti e dalle ore rarefatte.
– E parleranno una nuova lingua, secondo Ross.
– Una lingua isolata, scevra da legami con altre lingue, – ha detto. – Che sarà insegnata ad alcuni, impiantata in altri, quelli cioè già in uno stato di crioconservazione.
Un sistema che offrirà nuovi significati, […]
Amplierà la nostra realtà e la profondità del nostro intelletto.
Ci ricostruirà, ha detto.
Conosceremo noi stessi come mai prima,
diventando centrale nella breve, densa seconda parte. Poche pagine in cui a parlare è Artis, la donna nella capsula, che si esprime in un controcanto tra la prima e la terza persona a rendere perfettamente lo straniamento farmacologico, l’alterità che apre a una nuova percezione e profondità di significato.
Cerco di sapere chi sono.
Ma sono solo quello che dico e non e quasi niente.
Lei non è in grado di vedere se stessa, di darsi un nome, di
valutare da quanto tempo ha cominciato a pensare le cose
che pensa.
Penso di essere qualcuno. Ma sto solo dicendo delle parole.
Le parole non se ne vanno mai.
Tutti i fili della trama, alcuni appena accennati nelle prime 140 pagine, si riavvolgono saldi nella terza e ultima parte del libro in cui nulla rimane sospeso e anche per i personaggi minori -il Monaco, i fratelli Stenmark, la compagna e il figlio da lei adottato- viene stabilita una più precisa collocazione nella cosmogonia personale di Jeff.
E al rientro in patria in un mondo in qualche modo a noi più familiare (quello della “vita fatta di momenti ordinari”) cogliamo ora con maggiore evidenza gli accenni sparsi ai precedenti romanzi di don DeLillo in una sorta di cosciente attraversamento degli stessi: al basso perenne di fondo di Rumore bianco che pare di percepire a Convergence (oltre ad alcuni rimandi autocitazionali, personaggi i cui copricapo fungono da “interfaccia col mondo” nell’uno e nell’altro libro); alla centralità dell’arte già indagata in Body art; alla possibilità, infine, di una narrazione attuale – contemporanea e di critica sociale ma mai apertamente engagée- e possibile solo se attraversata da uno sguardo lucido che passa per la visionarietà di Underworld, di cui Zero K potrebbe essere diretto erede per bellezza, complessità, altissima cifra del narrato a consolidare la grandezza intoccabile di Don DeLillo.
Si raddensano i vissuti di tutti negli ultimi due capitoli del libro, quando in secchi paragrafi Jeff sposta in un costante rimpallo la sempre accesa attenzione tra ciò che starà succedendo altrove, nel gelo di Zero K, e ciò che incrocia nel quotidiano per le strade di una New York di consueta, struggente, delilliana bellezza, figlia dell’acutezza perfetta dello sguardo “altro” del romanziere sul già visto.
E tutto si va a chiudere in un finale luminoso, in cui a sorpresa le parole verranno finalmente accantonate: saranno soltanto un’immagine potentissima –pre-lingua dunque, universale e ineludibile– e la purezza assoluta, perfetta, dello stupore di un bambino che la osserva le uniche entità degne di possedere mondo e verità.